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Viva l’ Italia… che non c’è più.

“25 Aprile”:

un “trademark” in svendita

Roma, 25 aprile 1945

Viva l’ Italia o ciò che ne resta.

Resta il giorno festivo , restano le manifestazioni nelle piazze e qualche bandiera malinconica . Restano i titoli dei giornali, i servizi d’ apertura dei telegiornali, qualche malinconica intervista agli ultimi testimoni oculari.

Dopo 69 anni la festa della liberazione diventa un brand svuotato di significato, un giorno festivo favorevole ad un ponte lungo o a brevi vacanze . Nella migliore delle ipotesi .

Gli italiani contemporanei festeggiano un giorno festivo che accorcia la settimana, si riuniscono lungo le autostrade, nelle stazioni , negli aeroporti o, più semplicemente, a tavola.

Per festeggiare si una “ liberazione”, quella dal lavoro (per chi ce l’ha), dallo studio, dalla routine. Non certo dal nazifascismo e dalla dittatura .

I patrioti contemporanei sono tutti nati dopo, in un paese distrutto ma libero e democratico , un paese da ricostruire, da arricchire , da reinventare.

La memoria, soprattutto se disperata, non è buona cosa, La memoria ferisce, richiede analisi e ammissioni di colpa, personali o collettive .

Dopo il 25 aprile 1945 lo stivale aveva voglia di ballare, di diventare presto quella America ricca e libera che i militari sorridenti avevano fatto sognare per le strade.

Questa data ha avuto un senso storico, patriottico, testimoniale e profondamente umano finché i fautori del marchio , i partigiani ed i loro cari, sono stati in grado di raccontarlo .

Finché i testimoni hanno reso credibile la narrazione del periodo antecedente a quel giorno di rinascita questa data ha conservato, seppur con difficoltà, un valore condiviso ed oggettivo.

Ma 69 anni dopo non bastano sparuti sopravvissuti a rivendicare l’ importanza della memoria, sono pochi e, quei pochi, troppo anziani per essere ascoltati .

Senza di loro il 25 Aprile e’ solo un trademark utile alle imprese turistiche, alla ristorazione, agli organizzatori del “ tempo libero”.

Gia’ … un tempo che e’ “ libero” perché qualcuno ha lottato e si è sacrificato per liberarlo , per consegnarci la possibilità di parlare e pensare, dissentire ed anche di fregarcene , all’occorrenza.

Certo che questa data e’ presente nei programmi di storia, dalle elementari a salire . Così come sono presenti in scaletta tutti i gradini del nostro passato, da Cesare Augusto in poi.

Ma a chi importa ?

A qualche storico, agli intellettuali, agli studiosi e, spesso senza cognizione di causa, ai politici, ai tanti “aspiranti” statisti, trasversalmente.

Anche per loro il “ 25 Aprile” è un marchio iper comunicativo da sfruttare. Non per spiegarne il senso profondo ma per attirare consensi ; esattamente come Costa Crociere per attirare clienti primaverili .

In un mondo ferocemente veloce non c è tempo di approfondire : quello che è stato e’ stato, l’ importante è qui e ora ed, eventualmente il meteo per le prossime 48 ore .

Ma il marchio “25 Aprile”, ignorando di pagare i diritti morali ai legittimi anziani proprietari, è quanto mai importante e sfruttabile politicamente all’ orizzonte delle elezioni europee di giugno .

Rivolgendosi ad un pubblico distratto ed assuefatto, Una parte lo esalterà per ricordare il valore immenso della Costituzione democratica che ne è scaturita . Una parte lo userà per sottolineare che quel futuro promesso 69 anni fa non è stato poi così “ perfetto “ e che forse, e sottolineo forse, qualche regola del regime antecedente potrebbe servire anche oggi per rimettere ordine in una libertà troppo libera ed incontrollabile .

Già … e’ il problema della libertà, quando te la consegnano la devi gestire, curare e capire se non vuoi rovinarla o, addirittura trasformarla in un’ arma .

Senza disturbare i centenari partigiani basterebbe chiedere a chi vive senza libertà cosa preferirebbe ?

Chiedetelo a una cittadina afghana,ad un soldato ucraino, a un oppositore russo ai genitori di Giulio Regeni o, più semplicemente, ad un carcerato .

Ed allora…che tutti gli attori interessati usino pure il “ 25 Aprile” trademark per fini propri ma riconoscano almeno una quota dei proventi a chi ne e’ stato artefice sincero: ai partigiani, agli italiani vissuti negli anni 30 e 40, a chi non è tornato dal fronte o dai lager .

E se non potete domandare a loro leggete almeno i loro libri ; quelli restano a dispetto della voracità del nostro tempo in 5G.

E allora viva l’ Italia, l’ Italia in corteo, nei musei, al mare, in montagna e ovunque voglia andare . Se lo può fare e se può raccontare ciò che vuole, nel bene e nel male , lo deve a una giornata di primavera, ad un oggi ormai lontano che va via e sbiadisce, come una foto in bianco e nero scattata tra la gente nelle strade in festa.

Buona liberazione , comunque la pensiate ( per fortuna).

Cristina Battioni

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Lettera a Makka.

IL MIO 8 MARZO E’ PER TE

Dal profilo Instagram di Makka Sulaev

Ciao Makka, spero le mie parole possano arrivare oltre le mura della struttura protetta in cui ti trovi ed anche ai Carabinieri che ti piantonano .

Paradossalmente sei meno sola ora, piantonata con i tuoi 19 anni.

Una settimana fa hai accoltellato tuo padre per difendere la tua mamma, Natalia, dall’ ennesima aggressione violenta .

Hai salvato e difeso chi non ti ha protetto, hai reagito contro l’ inaccettabile .

Il valore del tuo gesto, che temo non ti verrà riconosciuto , ha un’ implicazione sociale e culturale immensa .

Hai ucciso tuo padre e ferito un sistema patriarcale di dei, maschi e onnipotenti .

Solo ferito purtroppo .

8 giorni fa eri ancora un anonima studentessa liceale di Nizza Monferrato , nell’ Astigiano . Studiavi e lavoravi come cameriera al Ristorante “ La Signora in Rosso”, come la tua mamma .

Ora tutti hanno belle parole per te : “una ragazza diligente “, dichiarano i tuoi titolari; “ una studentessa modello, allegra e generosa”, dicono i tuoi professori e i compagni di classe .

Allegra non la sarai mai più Makka , ciò che hai fatto per autodifesa , temo abbia ucciso anche una parte di te .

Ora la paura , il senso di colpa ( umano negli esseri ancora umani ) ti faranno sentire ancora più fragile . Ma non la sei .

Sei solo la vittima di un sistema che attraversa la storia e tutte , tutte le società , da sempre e per sempre .

Ma sei anche la forza che scardina l’ ordine precostituito , che agisce e si assume le proprie responsabilità , mentre nessuno lo ha fatto .

Nessuno ti ha aiutato a fermare un incubo che si perpetuava tra le mura di casa tua . Non ti ha protetto tua madre, vittima a sua volta , né i tuoi fratelli , né i vicini , né tutti coloro che sapevano dei lividi che nascondevi .

Ora tutti “ intuivano” ma nessuno ti ha aiutato prima . Se lo avessero fatto non starei scrivendo questa lettera .

Il tuo caso andrebbe urlato , ma è scomodo . Non occuperà per giorni le prime pagine perché “ sei cecena”. Faranno finta che tu sia vittima di un’ altra cultura .

E invece il clima è lo stesso , in Cecenia, a Kabul , in un piccolo paese dell’ astigiano .

Lo stesso modello aberrante di patriarcato che continua a provocare in Italia un femminicidio ogni due giorni . Sono numeri da genocidio .

Perciò Makka , ti prego, perdona te stessa, se puoi, hai salvato tua madre e, forse, hai dimostrato che le vittime possono anche non essere complici del loro carnefice .

Oggi è la festa della donna , inutile e stereotipata.

Io vorrei fosse una giornata dedicata alle DONNE come te , figlie che diventano madri per difendere le loro madri .

Poche denunciano , non serve . Le donne vittime di violenza fisica o psicologica sono migliaia di esseri silenziosi .

Sono sole , schiacciate da una dipendenza morale ed economica e, soprattutto, dalla paura del giudizio altrui .

Sai Makka , spesso gli uomini più imperdonabili sono DONNE. Tutte quelle che, in fondo , nutrono e giustificano un maschilismo feroce ed ignorante , in qualsiasi livello sociale .

Ti lascio con parole non mie, le ha scritte Ashley Judd, un ex attrice statunitense che ha scelto l’ attivismo politico e umanitario . Una che cerca di rompere gli schemi aberranti di questa “ nostra” società silente.

“Il patriarcato non sono gli uomini. Il patriarcato è un sistema a cui partecipano sia le donne che gli uomini . Privilegia , tra l’ altro, gli interessi dei ragazzi e degli uomini rispetto all’ integrità fisica , all’ autostima e alla dignità delle ragazze e delle donne . E’ sottile, insidioso e pericoloso e peggiorerà finché molte donne negheranno appassionatamente di esserne loro stesse coinvolte “

Ciao Makka , proteggi te stessa , ricomincia a studiare , ovunque tu sia . Userai la tua forza per rompere il silenzio ed aiutare, spero, chi quel coraggio non ce l’ha .

Che l’ orizzonte dei tuoi 19 anni possa lasciarsi vedere dai tuoi occhi . Vai verso di lui .

Cristina Battioni.

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Avrai

“Se amore , amore ,amore avrai “

Avrai tempo, il tempo diluisce ma non spegne . Avrai bilanci che non quadrano , tutti gli anni , ogni anno . Avrai cose da buttare, idee da cambiare , nuove illusioni da rincorrere .

Avrai tanto quando capirai che ciò che si perde e ciò che ti porta avanti.

Avrai la consapevolezza della tua fragilità . Cercherai di ignorarla nella narrata sicurezza delle abitudini .

Ma così avrai solo ciò che ti fissa , ma mai avrai il presente . Il presente è verità .

Il futuro una scommessa . Solo scommettendo su di te avrai un’ occasione . Giocala .

Avrai coraggio . Indispensabile .

Avrai umiltà . Senza ritorni alla casella di partenza . Sempre

Ma soprattutto , oggi, domani e persempre , avrai la fantasia per immaginare un giorno diverso .

Avrai …” la stesa mia triste speranza “ … in cui triste significa profonda , non banale , vera .

Avrai amore , solo se amore darai .

Avremo un 2024 migliore ? No, speriamo solo sia nostro . Non conforme , non uguale . Non scontato .

Avrai ciò che sei e farai . Finalmente .

A chi amo .

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Giulia e le sue sorelle

Cara Giulia ti scrivo ora , sperando che tu sia già molto lontana . Lontana da un tempo che si conferma pasticcio di antiche e nuove ignoranze sentimentali e intellettuali . Ti scrivo ora , immaginandoti tra le braccia della tua mamma , al caldo , al sicuro .

Potevo essere tua madre . Nessuno lo è. Tutte potremmo essere tue sorelle , minori , maggiori , sempiterne . Sorelle di ingiustizia , figlie, mogli, compagne, madri di una mascolinità mai insegnata e mai appresa .

Giulia, essere dolci , essere femminili, essere buone e responsabili e’ un pericolo . Pensare di arginare il male con il bene è un utopia in questo piccolo quartiere chiamato “ Italia “ .

Dovevi laureati giovedì , almeno un giorno da gioia dopo tanto lavoro … e invece no .

No come per tutte le “ sorelle di Giulia “ che per onestà intellettuale , amore per i propri figli o la propria famiglia , sono state zitte e non hanno urlato .

No come per tutte le sorelle di Giulia che “ per non creare problemi” hanno cercato di risolvere da sole le loro tragedie e paure .

No come per tutte quelle Donne che , piccole o grandi, non sono riuscite a scappare da “ chiunque “ cercasse di negare loro un futuro .

Siamo tutte sorelle di Giulia oggi , dovremmo esserlo . E dovremmo essere in grado di difenderci e sostenerci . Ma non è così .

Ed è questa la crepa culturale . Il maschilismo latente nella nebbia della nostra cultura non ci permette di unirci .

Divise nel tentativo di dimostrare qualcosa o nella paura di mostrare qualcosa . Ma a chi ? Agli uomini ? E dove sono ? Dove ?

Dolce Giulia , dalle braccia di tua madre guardaci e perdonaci tutti e tutte , anche le sorelle che oggi hai in più .

Perdonaci perché bastava insegnarti che il bene non vince . Non ora e non qui .

Tu vincerai in un mondo che , almeno spero, sia pulito e limpido , come te .

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LA NONA STAZIONE

Il diritto di essere stanchi

Via Crucis 2022

Secondo le Scritture Gesu’ cade per la terza volta alla Nona Stazione.

E’ esanime ma trova la forza di rialzarsi per continuare la strada verso il suo destino. La Nona Stazione è l’ essenza della Via Crucis, la sua parte più drammatica ed umana.

Quando si è stanchi, provati e debilitati da malattie o sopprusi si cade, si ha il diritto di cadere. Si cade per stanchezza, demotivazione, sfinimento. Alla nona stazione cadono i profughi, i combattenti, i resistenti. Cadono gli uomini comuni dopo i fallimenti, le ingustizie e i sopprusi.

La Nona Stazione è sempre affollata, ci sono i dispersi, quelli che hanno perso ogni fede, i condannati da una giustizia ingiusta, i ricchi che hanno perso tutto e gli indigenti che non hanno mai avuto niente. Tutti poveri cristi in transito, senza croce e senza una fede che li possa aiutare a rialzarsi.

La stanchezza non è solo uno stato mentale o fisico, diventa un sentimento, un sentire la propria deolezza nei confronti di un esterno che non accoglie ma respinge, non nutre ma risucchia.

La stanchezza di chi cade alla Nona Stazione è il sentimento dei vinti, di quelli che si sono già rialzati ma decidono di arrendersi. Arrendersi non è una colpa è solo l’ esito di una salita che non tutti i corpi e non tutte le anime sono in grado di affrontare.

La vita terrena è un alternarsi continuo di pianure e acese al monte Golgota. Ognuno percorre il suo cammino e, nel farlo, ha il diritto di cadere e non avere più voglia di rialzarsi.

Ne hanno diritto i carcerati privati della libertà, i migranti stanchi di cercare un porto che non esiste, i malati stanchi di cure che non migliorano la qualità di vita, i pensionati minimi che, dopo una vita, faticano a mantenere un decoro.

Cadono senza rialzarsi mai veramente i bambini violati o non voluti, gli homless avvolti nei giornali, gli alcolisti non anonimi, le donne abusate, gli sfrattati, i derisi.

Tutti accomunati dalla stanchezza della solitudine, tutti con lo sguardo perso nel vuoto e le parole cancellate in una “spirale del silenzio”. Chi è stanco non parla più e nemmeno ascolta. Aspetta.

Aspetta intuendo che per lui non ci sarà una Quindicesima Stazione o una rinascita, perchè ha già provato a rialzarsi ma non è bastato. La salita è ricominciata troppo in fretta e senza aver permesso alle forze di rigenerarsi.

Chi cade in questo tempo cade e basta schiacciato dalla sua croce personale di cedro, cipresso e pino. Il cedro dei giardini pieni di sole a cui non ha accesso, i cIpressi dei cimiteri sotto cui dormono gli amori, i pini dei Natali soltari.

Chi è stanco alla Nona stazione non crede più nè nelle proprie forze nè in quelle salvifiche degli altri. Forse spera soltanto di potersi fermare almeno per un pò senza dover dimostrare coraggio o resilienza.

Come scriveva Lucio Dalla è un utopia pensare che ogni cristo scenderà dalla sua croce in tempi migliori, forse sarebbe più umano accettare la stanchezza e riconoscerle rispetto.

Non è obligatorio rialzarsi sempre e a tutti i costi, non è vergognoso o disdicevole cadere e restare in terra, raccogliersi per proteggersi da quello che resta.

Tutti hanno almeno il diritto di cadere e di avere il tempo di capire se restare o proseguire…con croce al seguito.

Buona Pasqua a chi è stanco o si è fermato.

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Vendimi un sogno

Vedimi un sogno, uno di quelli che hai messo via

Sogni sfioriti

Vendimi un sogno , anche di seconda mano, usurato e stanco , senza diritto di recesso

Vendimi un sogno , irrealizzabile o già annoiato , non importa .

Tu vendimi un sogno , anche sapendo di ingannarmi , prendo tutto il pacchetto .

Vendimi un sogno e lo pagherò a rate , rate fatte di ore, giorni e tempo .

Vendimi un sogno perché ho finito i miei e non so più inventarli . Ho perso la fantasia .

Vendimi un sogno perché ho fame di speranza , ho sete di vita e la verità e’improbabile e febbricitante

Vendimi un sogno , che io possa dormire in un altrove senza incubi .

Ps. Grazie

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I CORRIDOI “DISUMANI”

#DIRITTIUMANI

Anna e i suoi bagagli attraversa il confine con la Slovacchia-Ph. Aleksandra Szmigiel per Reuters

La propaganda in guerra ostenta la concessione di corridoi umanitari ma, di fatto, gli unici corridoi sono quelli che la forza della disperazione percorre da sola.

L’ Unchr, organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, stima dal 24 febbraio ad oggi, un flusso di 2,3 milioni di ucraini in fuga dalle ” operazioni militari” russe verso Polonia, Ungheria, Slovacchia, Moldavia e Romania.

La sofferenza è impietosa, toglie espressione ai volti dei terremotati, dei naufraghi, dei sopravvisuti in senso lato ma la sofferenza di un popolo di profughi fatto di donne, bambini, anziani con i loro animali o le loro poche cose è una sofferenza che segna la Storia e dovrebbe risvegliare la coscienza di tutto il genere umano, se ancora qualcosa di “umano” abbiamo salvato.

Siamo tutti in balia della narrazione difficoltosa proposta da inviati di guerra o da politologi che hanno sostituito i virologi sotto i riflettori e sappiamo tutti ben poco cosa stia accadendo in uno spazio estremamente prossimo al nostro territorio. E forse, poco ci importa se non incide nelle nostre piccole traiettorie quotidiane. Ma le foto restano, raccontano storie senza usare parole, fanno trapelare il freddo, la stanchezza, l’ umiliazione, la paura della gente comune.

Come in ogni emergenza emergono migliaia di persone che offrono quello che possono; cibo, abiti, alloggi, solidarietà, che danno il meglio di sè e migliaia che si voltano dall’ altra parte, non per cattiveria ma per paura di identificarsi, di poter intravvedere un futuro di cui non vorrebbero mai essere i protagonisti.

E quindi? Cosa dovremmo fare?

Manifestazioni, donazioni, appendere lenzuola con su scritto ” Ce la farete!”? Non credo. Basterebbe recuperare, ognuno nel suo piccolissimo, un giudizio critico e la “grazia nel cuore”. La Storia corre molto più veloce del nostro attivismo occidentale, è già arrivata al giro di boa mentre noi la osserviamo increduli dalla spiaggia.

Possiamo tornare ai fondamentali, a metterci nelle scarpe di chi percorre i corridoi disumani per chiedere sì, e a gran voce, dei corridoi umanitari garantiti, anche se per brevissimi intervalli. Dovremmo pretendere che la carta dei diritti umani non sia solo sventolata ma rispetata, che il Tribunale penale internazionale (TPI) metta a disposizione tutti i mezzi umani ed economici per sanzionare ora, e non fra vent’ anni, i crimini contro l’ umanità.

Se ad ogni post sui social corrispondesse una mail di denuncia ai Ministeri degli Esteri, al Tribunale dell’ Aia, alle cancellerie mondiali, forse l’ opinione pubblica riuscirebbe ad avere un peso, almeno mediatico. Non sarebbe una presa di posizione politica, non richiederebbe competenze geopolitiche o diplomatiche e dimostrerebbe che, in realtà, tutti vogliono soprattutto la stessa cosa: salvarsi la vita; Anna con i suoi tre animali, Olga che abbraccia il suo volpino in un rifugio della Romania, un uomo e il suo gatto che spuntano da un sacco a pelo in un rifugio di Kharkiv ed io, voi, noi spettatori frastornati tra un’ emergenza e l’ altra.

Nel frattempo consiglio di tenere sempre a portata di mano delle scarpe comode e robuste, un trolley con rotelle rinforzate, uno zaino, un sacco a pelo e la speranza di doverli usare per una gita fuori porta e non per percorrere i corridoi disumani appena fuori dal nostro quartiere.

Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.

C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,

un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.

Un tempo per uccidere e un tempo per curare,

un tempo per demolire e un tempo per costruire.

(Dal Libro del Qoèlet (Qo 3,1-11)

E allora “noi” a quale tempo vogliamo appartenere?

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La “dis-sincronia” di Putin

#timeout

Sembra impossibile, eppure basta un istante di distrazione per essere superati dalla Storia. Per quanto si sia bravi nel prevedere e nell’ anticipare, prima o poi si inciampa nel momento esatto in cui la musica in sottofondo cambia impercettibilmente ritmo.

Nella vita degli uomini comuni si risolve in un inciampo su se stessi o in piccole tragedie private. Quando a di-sincronizzarsi è uno Zar, convinto di essere tale, è un disatro armato che chiamiamo “LA GUERRA”. Non ho le necessarie competenze geopolitiche nè per comprenderla nè per narrarla e temo che pochi le abbiano.

Al di là del taciuto e delle trame insondabili che stanno alimentando l’ apparente conflitto di un elefante bellico contro un topolino da granaio cosa c’ e’?

C’è che il potere, che chi detiene il potere, si è di-sincronizzato, e’ rimasto indietro mentre la Storia correva piu’ veloce.

La narrazione di questa guerra ci consegna solo un evidenza : è anacronistica. Anacronistiche le presunte rivendicazioni territoriali, anacronistici i carri armati e i fanti, anacronistici i suoni degli allarmi, i civili ammassati negli scantinati, gli assalti ai treni dei profughi.

Un fim del secolo scorso restaurato a colori. Per forza, la regia è del Novecento.

(#comunquelasipensi)

La fisiognomica di Putin rimanda all’ imbalsamazione dei leader sovietici immortali ed insotituibili e le sue parole sono rivolte ad un mondo che è già svanito senza che lui se ne sia accorto.

Come scriverebbe Jean Charles Terrasier, le varie competenze del soggetto in questione hanno intrapreso uno sviluppo disomogeneo e non concordante con l’ ambiente esterno. Improvvisamente si è aperta una voragine fra realtà, bisogni e necessità del leader rispetto all’ offerta che il contesto circostante offre.

Nel suo caso l’ ambiente si chiama MONDO, un luogo ampio ma estremamente connesso.

Putin e’ malato? Di dis-sincronia senile sicuramente. E’ una patologia pericolosa in questo caso perchè piu’ il malato si avverte fragile più il suo agire “giù di testa” manifesta la sua rabbiosa incredulità rispetto ai suoi insuccessi. Nel registro relazionale aumenteranno aggressività e violenza, solo in ultimo influenzabilità e vittimismo. Solitamente un malato patologico si circonda esclusivamente di altri patologici o di figure minori che lo sostengono nel suo distacco dalla realtà.

Peccato che questa volta i soggetti in questione detengano le tre schede ciffrate utili per attivare ordigni atomici. Putin non è improvvisamente impazzito è solo rimasto indietro di qualche minuto in un tempo che non concede ritardi, di nessun tipo.

Addirittura l’ altro “giovane” Predidente, Biden, continuava ad annunciare la sua invasione dell’ Ucraina, precedendolo anche in questo.

Illuso dall’ imponente (in ogni senso) “collega” cinese, Xi Jinping, sbeffeggiato dalla gioventù esibita mediaticamente da Zelens’kyi, ripudiato da tutti i governi europei all’ unanimità, cosa gli resta? LA GUERRA , o la minaccia della GUERRA, contro tutti, perfino e soprattutto contro se stesso.

Qualcuno avrebbe almeno potuto suggerirgli che l’ opinione pubblica non andrebbe mai sottovalutata, soprattutto se si pensa di poterla influenzare e si sbaglia nel farlo.

Il risultato è un disastro che sta già coinvolgendo e sconvolgendo milioni di vite perchè il malato, o i malati, non vengono giustamente ricoverati o deposti per limiti di età. Comunque vada questa sarà l’ ultima pagina tragica di un Novecento che tutti continuiamo, nel piccolo e nel grande, a non riuscire a superare e in cui rischiamo di impantanarci, come già accaduto.

Speriamo che qualcuno deponga gli anacronisti storici, di qualunque nazionalità e speriamo di risvegliarci tutti, velocemente, nel XXI sec. con tutti i suoi difetti.

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Cara Anima ti scrivo…

“L’ anno che va via”

Così mi scaldo un po’ e siccome sei molto vicina, in punta di dita ti scriverò.

Da quando ti ho nascosto non ci sono grosse novità, l’ anno vecchio è finito ormai ma qualcosa ancora qui non va.

Ma non andava già prima e tu Anima lo sai bene. Prima della pandemia, prima dei distanziamenti sociali da decreto. Io e te li abbiamo vissuti quando erano “privati”, quando la globalizzazione spariva in una stanza che conteneva il mondo e solo il il tempo presente del verbo essere. Nell’ isolamento forzato abbiamo imparato nuove parole mute per comunicare, inventato un tempo nuovo fatto di istanti lunghi come anni, sperimentato pensieri avvolgenti come carezze per non perderci mai.

Mentre il mondo fuori proseguiva ottusamente il suo flusso stereotipato assicurato da fortini di sabbia, noi contavamo ogni granello di sabbia di una piccola clessidra. Nulla era insopportabile, nulla era privazione; le distanze dagli altri erano solo protezione di un amore tanto grande quanto fragile.

La mancanza di certezze non ci ha mai tolto il coraggio, semmai ci ha obbligato a trovare in noi nuove certezze, segrete e inattaccabili.

Questa sera, mentre ti scrivo è tornata la nebbia, te la ricordi la nebbia? Quella di tanti anni fa. Nella foschia circola un Virus cangiante, sai gli cambiano nome mentre lui è già stato sostituito, lo combattono con vaccini che lui ha già decodificato. E’ solo più veloce di un mondo che pensa di sapersi adattare e cambiare ma in realtà ha un problema con il cambiamento.

Noi lo avremmo chiamato ” Bottle V2“, perché sequenziandolo oltre alle catene proteiche si protebbe leggere un messaggio datato: “La misura dell’ intelligenza è data dalla capacità di cambiare quando è necessario”. Lo scriveva Albert Einstein nel millennio scorso. Molti lo hanno citato tra virgolette ma pare nessuno l’ abbia ben capito. Cambiare non significa adattarsi momentaneamente ed indossare mascherine o accettare di farsi introiettare vaccini, non significa modificare i propri comportamenti sociali perché obbligati da una convenienza, o sconvenienza, sociale.

La differenza tra l’ adattamento a un comportamento imposto e la capacità di piegare i propri desideri e la propria libertà in nome di un’ accettazione profonda e’ immensa.

Piegare i propri desideri non significa rinunciare alla bellezza o alla speranza ma solo proteggere quelli indispensabili. L’ amore è indispensabile, in qualunque forma si abbia la fortuna di incontrarlo. Va protetto, maneggiato con cura, nascosto dal male, pensato con intensità, anche e soprattutto quando non è agito.

L’ amore, quello autentico, è vitale. Tu anima mia lo chiamavi protezione, io lo chiamo eternità perché ho scoperto la sua resilienza, la sua straordinaria capacità di annullare tempo e distanze, di rendere il dolore malinconia e la malinconia una seconda pelle.

“Un solo essere vi manca e tutto è spopolato” scriveva Lamartine in Chute d’un ange, ed aveva terribilmente ragione. Anima mia, se puoi, dalla stella in cui ti nascondi e ti ho nascosto, cerca di spiegarlo tu a chi stasera si sente solo, a chi non riesce e non vuole cambiare, a chi non sa come rinunciare alla propria libertà per amore.

Spiegalo tu che quando tutto cambia non si può rimanere uguali, accettare è doloroso ma fingere o restare immobili è disastroso e, prima o poi, la vita ne chiede il conto. Talvolta occorre stare fermi, salutare il passato e prendere atto che il presente è cosa nuova che non poteva essere programmato.

La vecchia nebbia scende su un tempo nuovo, l’ unico che abbiamo e che possiamo vivere, vicini o lontani, che importa? La solitudine può essere un vortice anche violando le distanze di sicurezza.

Vivete il presente salvando la parte migliore della vostra anima, quella che segue la scia della vita, abbiate cura di voi e proteggete la grazia nel vostro cuore.

E tu Anima mia torna a nasconderti dietro una stella, ben oltre la nebbia e ciò che sfugge agli occhi, io ti accarezzo la mano ed i pensieri stanotte e ti porto con me verso l’ anno che verrà; ovunque ci porti ci troverà insieme.

Auguri a chi legge, a chi scrive, a chi è solo e a chi si sente solo…ed anche a me.

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“LA CURA” ZAN

BASTA UNA LEGGE CONTRO L’ IGNORANZA?

#comunquelasipensi

di Cristina Battioni

Non avrei voluto scrivere nulla sulla dibattuta “Legge De Zan” perchè la ritengo già troppo politicamente strumentalizzata e paradossalmente superata.

Superata dai fatti e dalla storia contemporanea.

Nel 1964 i Cultural Studies usavano l’ interdisciplinarità per comprendere e spiegare le differenze razziali come forme di diversità culturali in un mondo che si apriva timidamente alla globalizzazione; agli inizi del 1990 il costruzionismo spiegava già il “genere” ed i ruoli sociali come costrutti della società e con la “queer theory” superava addirittura il binarismo dei generi.

In una società mutata e completamente trasformata dall’ industrializzazione, dall’ urbanizzazione e dalle migrazioni non aveva più senso definire le persone in base alle loro caratteristiche biologiche poiché studi ed osservazioni evidenziavano come la formazione di un individuo possa avvenire e mutare nel tempo, nella sua storia personale e di formazione, rendendo il “genere” elemento fluido, che può cambiare, mutare, evolversi .

60 anni fa la sociologia aveva capito che la differenza fra “male” e “female” era solo convenzione e che la battaglia di genere stava per essere utilizzata per fini propagandistici e volutamente manovrati e stereotipati dalle diverse correnti di opinione.

Ben vengano le battaglie contro la discriminazione di qualunque natura, contro il maschilismo e contro il razzismo ma a nulla servono se non si supera la distinzione tra “male” e “female” e non si comincia a parlare di “persone” e della differenza tra male e bene collettivo.

Non avrei voluto scrivere le mie personali ed opinabili osservazioni su questa discussa legge ma questa mattina ascoltando “LA CURA” del Maestro Franco Battiato ho percepito nel testo tutto ciò che bisognerebbe sussurrare nella culla per migliorare l’ educazione sentimentale di una società occidentale fossilizzata in una falsa evoluzione e nella maleducazione.

La Legge Zan prevede l’ estensione dei cosiddetti reati d’ odio (art 604 bis del codice penale) a chi commette o istiga a commettere atti discriminatori verso omosessuali, donne e disabili e l’ aumento del carico penale applicabile ai colpevoli.

Ma come è possibile che in una civiltà occidentale culturalmemte evoluta ci sia bisogno di una legge aggiuntiva per punire l’ odio e tutte le sue declinazioni?

L’ odio è virulento, è accidia, è espressione di un substrato culturale ignorante ed involuzionista. Viviamo in un paese maschilista, perbenista ed ipocrita in cui le frustrazioni personali sfociano in violenza verbale o fisica, sempre più nascosta dall’ anonimato web o dalla massa.

L’ ODIO è un sentimento trasversale che riguarda tutta la società, non è di genere, né solamente razziale, è onnipresente e, ovviamente, si manifesta con maggior facilità contro gli indifesi, le donne, gli anziani, i disabili, i clochards, gli stranieri, gli omosessuali, i transgender. Sono solo gli obiettivi più esposti perché fragili o isolati, soprattutto se poveri.

A cosa può servire una legge che cerca solo di aggravare le pene anziché proporre come sanare il grande vulnus della formazione culturale e sentimentale di generazioni ormai indifferenti?

Gli oltraggi, le offese, le aggressioni verbali sono visceralmente contenute in tutti, o quasi, gli strati sociali. Ci si sente abilitati ad offendere per frustrazione, per invidia, per sfogare le proprie insoddisfazioni personali. Lo fanno i politici, lo fanno gli opinionisti, lo fanno le tifoserie, lo fanno i personaggi pubblici, i rapper, buoni o cattivi. Lo fanno i minori fuori e dentro alle scuole.

La legge Zan dovrebbe punire l’ accidia covata spesso all’ interno dei nuclei famigliari e già assorbita nella culla? L’ omofobo non sarà anche un maschilista in casa, con la moglie, con i figli? E chi denuncerà e rimedierà a quel tipo di odio sottile tra le mura domestiche ? Non una legge. Considerando che in Italia nessun reato viene punito con pene certe ed applicate ma finisce per intasare solo i tribunali di denunce di offese verbali date e ricevute, udite o bisbigliate.

Gli unici antidoti all’ imbarbarimento sono la cultura, gli esempi assorbiti nelle proprie case, nelle scuole, nei programmi di insegnamento.

La discussa legge dell’ On. Zan certamente sottolinea l’ esistenza di un problema, ma non lo risolve.

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CENERENTOLA VINCE AMICI 2021

LA VITTORIA DELLA NUOVA FEMMINILITA’

dI Cristina Battioni

Giulia Stabile è uno scricciolo di 19 anni, un insieme di imperfezioni deliziose, di caos, passione, fragilità, volontà che l’ hanno resa unica.

Con lei vince l’ anti stereotipo della perfezione femminile venduta come merce prodotta in serie dai mezzi di comunicazione e dal marketing degli ultimi 20 anni.

Non ci rassicura perché è normale, ci affascina perché è se stessa, con le fragilità di una ragazza che non si atteggia a prima della classe, che non ambisce alle copertine patinate e ritoccate dei giornali o ad essere la reginetta del liceo.

Giulia è quello che si vede, non un prodotto manipolato ma una ragazza tutta occhi e risate che non teme di scoprire le gengive e sorride, ride anche quando le cose non vanno bene, ironizza su se stessa e si impegna tanto da trasformarsi in farfalla quando balla.

Lei stessa dichiara più’ volte di essere nata con la passione, non con il talento.

Ed è la passione che si è trasformata in talento e la rende bellissima quando danza, su qualunque base, con qualunque scenografia o abito di scena.

Davanti a 6.667.000 spettatori (33,4% di share), vince e si butta a terra tenendo per mano Sangiovanni, secondo classificato e Principe azzurro della favola.

Visti così ricordano la gabbianella e il gatto, lui cosi’ simile a Rino Gaetano, lei cosi’ simile alle ragazze in fiore di un nuovo ventennio, che, speriamo, cancelli il precedente.

Con loro vince, certo, il fascino della favola, la narrazione del primo amore nato e spiato in un talent, questo mi interessa poco, anche se una favola, pulita e artistica, in questo periodo ci rassicura.

Ma con Giulia vince soprattutto la femminilità, rinata dopo anni di finti perfezionismi senza grandi contenuti, vince un’ immagine di donna che si concede fragilità e insicurezze, che fa dei suoi presunti difetti dei segni di unicità irresistibili.

Forse abbiamo capito che il modello precedente cominciava ad avere il colore delle figure esposte al museo delle cere? Finalmente anche il mercato ha compreso che la bellezza ormai si può costruire ma la personalità no?

Mi sorge il dubbio osservando che Dove lancia in contemporanea all’ ultima puntata di Amici, quindi nel punto di massima visualizzazione del sabato sera televisivo, la sua nuova campagna pubblicitaria. Un inno e un invito alle nuove donne ad essere se stesse, a riscoprire una bellezza che può fiorire e crescere se alimentata dall’ intelligenza e dalla grazia.

#let’schangebeauty

La campagna denuncia la perdita di autostima delle ragazze, peggiorata durante il periodo di pandemia. Vittime, inconsce, di un modello di perfezione solo estetico, costruito ad arte per vendere prodotti e prestazioni completamente inutili, con il solo scopo di far volare i fatturati senza preoccuparsi dei danni psicologici e delle patologie innescate. www.dove.com/autostima

Giulia Stabile non è importante solo per il suo talento e per la sua vittoria ma per la vittoria della sua immagine e della sua personalità, per averci riportato quel senso di estate di cui tutti abbiamo bisogno.

Citando Vasco “Brava Giulia”, che provi a vivere la vita che vuoi, al di fuori delle attese, pretese, aspettative di un mondo mediatico che ormai è vecchio e ci vede poco.

Brava Giuia

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“UN LIBRO NON SI NEGA A NESSUNO”

NON SI SA MAI…

IL PIANO B DELLA SCALA B

di Cristina Battioni

la finestra aperta lascia entrare una sera di maggio nel soggiorno. E’ di nuovo un sabato qualunque, “un sabato italiano”; auto, pedoni e biciclette attraversano l’ isolato tra l’ aperitivo e le 22, il peggio sembra essere passato ed Il passato prossimo sembra già remoto, prescritto.https://youtube.com/watch?v=p1ooI9AyAzU&feature=share

La dimenticanza è la fortuna di molti, non la mia. Ho una memoria selettiva; resetta immediatamente l’ inutile o il non interessante ma trattiene morbosamente ogni crash, ogni istante di vertigine, ogni caduta. Ogni nuovo segmento trascina dati virali dal precedente.

Mi preparo una macedonia, solo fragole e banane, mi verso un bicchiere di vino bianco e accendo la Tv. Ombra sembra non interessato alla frutta, raccoglie una carezza e si posiziona sul divano fronte schermo. Essendo stato il cane di Seppia ha una naturale predisposizione per le sigle dei notiziari.

Mi sospendo nelle mia stanchezza vespertina con il sottofondo della sigla di “Otto e mezzo” sulla 7. Non ascolto, non ascolta mio padre perché il volume è troppo basso per le sue capacità uditive, utilizziamo la televisione come elettrodomestico da compagnia.

Ombra sembra l’ unico interessato, punta le quattro zampe, si tuffa con inaudita audacia e si avvicina allo schermo abbaiando festoso.

Ombra

“Questo cane è pazzo, simpatico ma pazzo…”, commenta mio padre. Il cane pazzo mugola e scodinzola; alzo lo sguardo per osservarlo e nell’ elettrodomestico riconosco il primo piano di Seppia. Alzo il volume spropositatamente mentre mio padre ringrazia per avergli reso comprensibile il sonoro.

Il Prof dell’ Edicola Sospesa riemerge nel suo ambiente naturale, perfetto nel suo mezzobusto leggermente inclinato per bucare lo schermo e a catturare l’ attenzione. Indossa un completo di lino blu, i nuovi occhiali da vista con montatura azzurra addolciscono lo sguardo vigile.

” Ma io l’ ho già visto, ma sì dai, si vedeva spesso in televisione, come si chiama.. lo sai no come si chiama?”, mi domanda mio padre, come da copione.

“Aspetta papà, ci penso, poi mi verrà in mente…”, gli rispondo al solo scopo di zittirlo, inutilmente.

Ombra si placa ma lui no e continua a commentare, “Sarà uno che ha scritto un libro, ormai scrivono tutti solo libri, ma chi li leggerà poi tutti sti libri? Mah”.

Non ha tutti i torti.

Intanto mi avvicino anch’ io al televisore come se il Prof. potesse vedermi seduta in prima fila, nascondo lo stupore e l’ emozione ed ascolto la risposta alla domanda scontata dell’ anchorwoman protesa al limite estremo della sua gigantesca poltrona. “Cosa ha fatto in tutto questo tempo, è stato il lockdown a suggerirle il suo romanzo che, da quanto vedo, sta andando molto bene mi pare?”

Dentro l’ elettrodomestico

Seppia la guarda, poi guarda noi, o almeno sembra, solleva leggermente un sopracciglio e sfodera il suo magistrale istinto teatrale per esprimere modestia e una vaga noncuranza, “Tutto questo tempo? Non saprei, non l’ ho contato, l’ ho lasciato passare. Il tempo è fluido, scorre da solo. No, nessun parto da lockdown, io ho il mio isolamento personale, il romanzo si è scritto da solo mentre io lo osservavo passare, il tempo, nei passanti.”

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NESSUN LUOGO E’ “DISTANTE”

L’ ULTIMO Istante SOSPESO DELLA SCALA B.

di Cristina Battioni

Un segmento del diagramma di Cassandra tende a 0, scompare mentre l’ Italia riapre un segmento alla volta, giorno dopo giorno dimentica e progetta, ingenuamente, una nuova stagione.

Il mondo ha ricominciato a circolare con la frenesia precedente al Virus, tutto ricomincia a girare vorticosamente; persone, auto, autobus, monopattini, scolari, runners, negozi, pizzerie, dehors; il tempo decelerato accelera senza consapevolezza, si calpesta, divora se stesso senza sentirsi mai sazio.

Io resto sospesa anche in assenza di un’ emergenza, ad ogni caos ne segue inevitabilmente uno nuovo; osservo e aspetto. Ho deciso di declinare l’ offerta di Cassandra, non sostituirò Seppia all’ Edicola Sospesa, l’ urgenza contingente della realtà non me lo consentirebbe in ogni caso.

La terra beve gli umori di chi l’ ha calpestata e la Scala B ha bisogno di una sanificazione, di nuove storie da miscelare a vecchie malinconie.

Vado a comunicarlo al Prof. Seppia, per me “Seppia persempre“.

Piazza della Vittoria torna ad essere un luogo di incontro, di passaggio, di scambi commerciali. Decine di formiche con la mascherina la attraversano in file disordinate, chi entra, chi esce, chi parla al cellulare tra “bzzzz” di porte che si aprono, gente che va, gente che viene. Il palazzo grigio ha perso quell’ austerità che l’ immobilismo umano gli conferiva.

Entro come di consueto premendo le mie impronte digitali, all’ interno eco di rumori, formiche impiegate e clienti smistate tra scale ed ascensori. Nessuno mi nota, siamo tutte anonime con gli occhi bassi sul nostro tragitto di briciole di tempo. Sono le 18, il mio orologio non si è ancora fermato.

Il piano T è sbocciato dopo due giorni di sole, un cubo di fiori con un coperchio di nuvole e vento. La natura riesce a comporre installazioni perfette quando non ha scadenze da rispettare.

Seppia esce dall’ Edicola Sospesa affiancato da Ombra che mi corre incontro cercando di sfruttare le leve corte delle sue zampe raso prato. “Ciao piccoletto, se mi abbasso fai un salto?”, neanche il tempo di finire la domanda ed il bassottino si accomoda tra le mie braccia emettendo buffi suoni di benvenuto.

Non so come si chiami realmente questo giornalaio, giornalista, scrittore, guardiano e apolide intellettuale, ma non importa più. Conosco le variabili del suo sguardo, il caleidoscopio nell’ iride scura, le zampe di gallina sopra gli zigomi, le inclinazioni della sua voce, il rumore dei pensieri, il suo profumo di lavanda. Il resto è convenzione da formicaio.

Il nome come una targa. Non dice nulla, resta uguale dalla nascita alla morte, il proprietario no. Bisognerebbe poter cambiare nome nei vari segmenti della nostra esistenza, nomi che ci corrispondano e ci identifichino nel divenire, nell’inevitabile cambiamento agito e subito.

“Ciao Prof, ho deciso di chiamarti così, ti si addice. Mi offri un po’ del tuo tempo ?”.

Il Prof sospeso mi prende sottobraccio e mi invita verso la panchina, “Certo, ho tutto il tempo visto che qui il tempo non esiste, se non nella tua testa dura…”. Replico che il mio orologio non si è arrestato questa volta.

“Guarda meglio e dimmi che ore sono ?”

Eseguo, sono le 17.59, il tempo non solo si è fermato ma mi ha concesso uno sconto.

Ci sediamo guardando il chiosco. “Allora Kami, naturalmente sapevo già che non avresti accettato di prendere il mio posto, volevo solo tu conoscessi Cassandra e i suoi montaggi cinematografici. Sono stato qui in questi anni per apprenderli.”

Sospendendo il presente Sandra era riuscita a farmi assistere alla proiezione del passato, anzi il passato era più reale del presente. “Ci sei riuscito?”, gli domando ,”Si, non perfettamente ma credo di si, per questo ho finito il mio romanzo e ora devo andare. Se ci pensi hai imparato la tecnica anche tu”.

E come, come l’ avrei imparata anch’io?

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LUANA PERSEMPRE

UN’ INFLUENCER DI VALORI PER LA NEXT GENERATION

di Cristina Battioni

Se questo fosse un articolo serio l’ incipit sarebbe il seguente:

Luana D’Orazio, una splendida ragazza di 22 anni muore il 3 di maggio uccisa dall’ ingranaggio di una macchina tessile nella ditta di Montemauro dove lavorava da un anno.

Ma questo è solo un “Giornale Sospeso” e la NOTIZIA non è la morte bianca di una ragazza, non solo.

La notizia è nella breve esistenza di una bellissima giovane donna, autentica e normale.

La sua scomparsa ci regala la storia di un’ incantevole ventiduenne priva di sussidi genitoriali, della possibilità di un’ istruzione universitaria ma capace di scelte difficili e di sacrifici, di vivere serenamente una quotidianità scandita dal suo lavoro in una fabbrica tessile e dal suo ruolo di mamma di un bambino di 5 anni.

Giovane, bella e mamma. Da adolescente a donna senza perdere il sorriso, senza rancori, con i suoi sogni nel cassetto e una piccola comparsata in un film di Pieraccioni. Una storia senza eccessi, senza protagonismi, senza ombre. Un bel film che meritava l’ happy end.

Luana D’ Orazio

Mentre la cronaca ci offre ripetutamente le immagini di una gioventù impegnata in assembramenti alcolici, feste a base di cocaina, vacanze milionarie a scopo di stupro, la morte bianca di questa splendida ragazza ci spiazza ed è faticoso scriverla.

Ci testimonia che “la meglio gioventù” esiste e resiste, lontano dalle cronache, dai luoghi comuni, dai fashion bloggers improvvisati, dagli annoiati stereotipati.

Luana aveva bellezza e gioventù ma anche la consapevolezza della realtà, aveva capito che i sogni resistono ma non bastano a mantenere un figlio, non comprano cibo, pannolini, medicinali, vestitini e, tantomeno, la dignità.

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“CASSANDRA”

IL DIAGRAMMA CARTESIANO DI SANDRA

-Primo tempo-

Di Cristina Battioni

Ho riflettuto a lungo sull’ offerta della Scala B. Potrei trovare nell’ Edicola Sospesa un rifugio, un luogo in cui leggere, imparare, ascoltare ed ascoltarmi. Ma sarebbe una fuga ed i sospesi si nascondono ma non scappano, non ne sono capaci.

Noi stiamo, restiamo, a costo di cadere e farci male, siamo i patologici delle risalite. Abbiamo bisogno di violenti temporali di vita, di ripari momentanei, di silenzi incomprensibili per risanarci prima di tornare a scalare il diagramma sconclusionato della nostra esistenza.

Incontro Cassandra sabato mattina al Piano T. E’ il primo maggio, l’ Italia in semi-libertà festeggia i lavoratori non lavoranti ed io mi preparo ad incontrare una donna senza età in un luogo non rilevabile.

I normali come i sospesi vivono nel paradosso.

Indosso un robe manteau blu, un paio di décolleté tacco 10 e sciolgo i capelli, ho perso l’ abitudine all’ eleganza ma un incontro con il passato richiede un’ uniforme adeguata con un leggero retrogusto di naftalina e di oggetti dimenticati tra le cose inutili.

L’ essenziale femminile singolare. Mi concedo solo l’ orologio di mia madre fermo da anni sulle 15,25 e un filo di rossetto color peonia.

Arrivo a Piazza della Vittoria verso le dieci. Il mese delle rose tarda ad arrivare, al suo posto ancora nubi e aria umida gonfia di pioggia. Gli uffici sono chiusi ma i bar aperti, qualcuno sbadiglia tra cappuccini e croissant, poca gente in giro, il vento di burrasca scoraggia le passeggiate.

Prima di sfiorare il portone mi soffermo ad osservare la targa dello “Studio Notarile”.

Come può essere cominciato da lì questo mio viaggio attraverso il tempo? E quanto è durato? Settimane, mesi, anni o solo pochi istanti nascosti? Stante, il Notaio, sarà nell’ altra sua vita stamattina, sulla rotta circolare e perfetta di un orologio rotondo. Ogni giorno la sua lancetta disegna come un compasso un cerchio perfetto attorno a lui che cammina spinto da una forza d’inerzia all’ interno della circonferenza, attento a non inciampare, a tornare esattamente nella stessa posizione ogni 24 ore.

Ogni giorno uguale all’ altro, senza sbavature o ritardi, ogni battuta ed espressione immutata, la stessa rappresentazione fedele attesa da un publico che aspetta solo continue repliche rassicuranti.

Il suo diagramma e’ a torta, il mio un diagramma cartesiano a segmenti, picchi e discese repentine.

Il portone si apre come spinto da una corrente fredda, piccole gocce sul pavimento dell’ atrio indicano il recente passaggio di Cassandra e del suo ombrello perennemente intriso di pioggia. Seguo il sentiero d’ acqua fino al muro del corridoio cieco, sento il rumore di tacchi e non li riconosco ; sono i miei.

L’ ascensore mi accoglie, mentre mi sistemo il vestito avverto una piccola vertigine che mi accompagna al piano T. Mi aspettavo solo silenzio e vuoto ed invece il cubo verde ed il suo coperchio di nuvole grigie sono animati.

Una musica fluida danza con il silenzio, i gelsomini lungo i muri interni cominciano a sbocciare profumando il giardino, al posto delle forstizie piante di rose con i boccioli ancora chiusi, l’ Edicola Sospesa è aperta con le sue litografie appese; sulla panchina Marco fuma in compagnia di una vecchia signora avvolta in un impermeabile beige, non è come la immaginavo; austera ed elegante, ma solo uno scricciolo con scarpe da bambina nere che sfiorano il prato.

Si somigliano, potrebbero essere madre e figlio, stessi lineamenti delicati, stessi capelli imbiancati e lucidi, stessi occhiali da miopi. Marco mi viene incontro, ora che non ha più il suo ruolo è libero di sorridere ma non ha perso la postura elegante da primo attore.

“Buongiorno Kami, deliziosa vestita da signora, quasi non la riconoscevo…dovrebbe farlo più spesso.” Il commento gentile mi fa sentire inadeguata, non mi sento più nei miei panni, rimpiango i miei soliti jeans e gli scarponcini. Sembro un’ impalcatura instabile edificata alla meno peggio per paura di un incontro, una specie di gru che cammina goffamente verso una bambina invecchiata. Comunque cerco di camuffare il mio senso di disagio. Marco, per me ancora e sempre Seppia, percependo il mio innaturale equilibrismo mi prende inusitatamente sotto braccio, mi stabilizza . Le mie dita si aggrappano al suo maglione morbido .

“E’ la Signora Cassandra vero?” gli domando avvicinandomi alla panchina, “Si, e’ arrivata presto per visitare il chiosco e salutarmi; non si alza perché ha qualche problema di stabilità … un pò come te…”, commenta sbirciando i miei tacchi.

Già, due donne, chissà quanti gap generazionali tra noi, eppure così vicine e simili nel tempo in pausa. Cassandra si appoggia all’ ombrello e si alza nascondendo lo sforzo delle ginocchia ossute, ora posso osservare la sua figura fragile al centro del suo spazio. Sembra una bambina invecchiata, le dimensioni dell’ ombrello chiuso la sovrastano.

Uno scricciolo delicato appoggiato ad un ramo cartesiano del tempo.

Cassandra è un nome inadeguato a questa donna minuscola con piccole mani fragili e grandi occhi color cenere. Prima di parlare mi porge la sua zampina, sento le sue dita senza forza cercare di stringere la mia mano. Osservo con invidia le sue ballerine nere, vorrei togliere i tacchi, lo faccio. Ristabiliamo un equilibrio nel diagramma a barre.

Cassandra mi da la sua benedizione, “Buongiorno mia cara, ero certa lo avrebbe fatto, lo avrei fatto anch’io, e’ un peccato perdersi la sensazione del prato morbido sotto i piedi, non e’ vero?”

Ha una voce lieve ed antica accordata al profumo delicato di uno chignon di zucchero filato. Non lascia la mia mano mentre mi invita a sedermi accanto a lei. Marco appoggia sulla panchina un vassoio di paste calde ancora impacchettate, “Vi lascio queste, ne avreste bisogno entrambe; se dovesse alzarsi il vento ritorno subito, non vorrei trovarvi sui rami dell’ albero.” Sdrammatizza da bravo padrone di casa e ci lascia al nostro talk show di cui conosce già domande e risposte.

Mi accarezza il viso prima di cominciare la sua spiegazione, io mi lascio cullare. “Cara Kami, so che qui la chiamano così, come già saprà Il Prof Seppia sta per lasciare il suo ruolo di guardiano del faro, la Scala B e’ in cambio turno. In tanti anni non era mai stata cosi’ vuota.”

La dolcezza accogliente della mia sconosciuta interlocutrice mi incuriosisce, “Tanti anni quanti ?” le domando, “Troppi, ho perso il conto. Questo palazzo e l’ area circostante appartenevano alla mia famiglia, nel secolo scorso ovviamente”.

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L’ERBA DI WALTER

NON COLPEVOLE MA GIA’ CONDANNATO DAI CENSORI “ANONIMI” DELLA CANNABIS TERAPEUTICA

Di Cristina Battioni

Il vicino di casa di Walter De Benedetto è probabilmente un “censore anonimo” o, nella migliore delle ipotesi, un perbenista ottuso.

Due anni fa un illuminato ed ignoto proibizionista di Arezzo ha denuciato ai Carabinieri il suo vicino, Walter, 48 anni, inchiodato su una sedia a rotelle da una rara ed incurabile malattia neurodegenerativa, reo di aver coltivato nel giardino della sua casa cannabis ad uso terapeutico.

chissà cosa avranno pensato i Carabinieri di fronte al presunto commerciante di stupefacenti ed al suo corpo deformato e sofferente, forse che dietro la sua inabilità si celasse un pericoloso cartello colombiano? Oppure, dalla soffiata del vicino, avranno dedotto che le piantine di marijuana gli servissero per rallegrare festini a base di sesso, droga e rock & roll?

Walter De Benedetto

Probabilmente non hanno pensato. Si sono limitati ad eseguire un blitz trasformatosi in un’ ispezione ridicola a danno di un piccolo uomo che coltivava il suo “orto” per sopravvivere. Quel blitz, alla luce dei fatti, ha solo aggiunto due anni di pene giudiziarie ad un essere umano già condannato da una grave forma di artrite reumatoide alla sofferenza, senza appello.

Proprio per il deterioramento delle sue condizioni l’ imputato non era presente in aula il 27 aprile per ascoltare almeno la sentenza della sua assoluzione e ricevere gli applausi dei tanti sostenitori che lo aspettavano. Li hanno raccolti e glieli hanno fatti ascoltare tramite cellulare i suoi difensori, Claudio Miglio e Lorenzo Simonetti. https://youtube.com/watch?v=NHpfnWlBRMU&feature=share

Walter è stato assolto dal giudice del Tribunale di Arezzo, Fabio Lombardo, in quanto non colpevole di spaccio. Assolto dalla Corte ma condannato al dolore cronico dalla deformazione dolorosa di ogni parte del suo scheletro ma non al deterioramento della sua intelligenza.

De Benedetto era stato costretto ad improvvisare la sua piccola auto produzione per colmare l’ innegabile carenza di farmaci cannabinoidi dovuti, per legge dello Stato, ai pazienti che li utilizzano per lenire i dolori delle loro gravi patologie. L’ ennesimo diritto sancito dal Decreto ministeriale del 9 novembre 2015 ma, nella realtà quotidiana, negato.

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SEPPIA

IL MALE DI VIVERE DELLA SCALA B

di Cristina Battioni

Dopo la morte di Ametista non sono più tornata alla Scala B.

Ho indossato il suo rosario di lacrime di Giobbe come un bracciale, talvolta mi sorprendo ad accarezzarlo, è il pallottoliere delle ore vuote.

Chiamo ore vuote quelle che lascio consumare, come un passeggero fermo ad una stazione guarda i treni passare ma non ha biglietto o intenzione di salire, li lascio scorrere, come i giorni. “Quando non sai dove andare stai ferma”, mi diceva mia nonna. E io sto ferma ma la mia mente no, si arrotola, si attorciglia tra incertezze e paure.

Si chiama stato di precarietà, quel tempo esteso in cui avverti il passato appartenere ad un altra vita, il futuro assente ed il presente precario. E’ l’ età della transitorietà, del fuori tempo; l’ essere perennemente in ritardo o nevroticamente in anticipo, sprovvista di un tempismo opportunista.

Non c’è azione e non c’e’ reazione, volutamente; solo sospensioni che portano alla Scala B. Ma anche la scala ora mi sembra una trappola, un non luogo fuori dal tempo popolato da fantasmi che si sono arresi ad essere ciò che non volevano essere.

Mi sento anch’io un “giornale sospeso”, salvato dal macero ma non ritirato. Un insieme di parole, notizie, domande a scadenza. Vale tutto ed il suo contrario nello spazio di 24 ore.

Continua a piovere su questa città in giallo ma paradossalmente grigia, non c’e’ aria di festa , né di rinascita. Sembra tutto immobile, il fuori come il dentro.

Fa sera su una giornata monotonamente uggiosa e monocolore, senza alcun entusiasmo mi perdo nel traffico della tangenziale, già intasata nei primi giorni di tana libera tutti. Non ho voglia di tornare a casa ma non so dove andare, salto la mia uscita e mi dirigo verso Piazza della Vittoria.

Benché i bar e i negozi abbiano riaperto non c’e’ movimento, qualcuno esce dagli uffici, mascherine e ombrelli. Silenzio e vuoto, come avrebbe scritto Forster.

Il senso di precarietà è tangibile, seppur nascosto da un’ apparente normalità.

Osservo il palazzo grigio ed austero, benché risalga ai primi anni ’70 da l’ impressione di un edificio ispirato al modernismo dell’ architettura fascista, rigida, compatta, severa. Il portone e’ gia aperto, mi basta spingerlo leggermente per ritrovarmi nel crocevia; scala A, scala C e vicolo cieco della Scala B.

Sento l’ eco di passi leggeri, non provengono dalle scale, sono passi di donna, brevi e costanti, scanditi dal ticchettio dei tacchi. Intravvedo una figura scomparire verso il falso muro dell’ ascensore. Un impermeabile nero scuote l’ ombrello, le gocce si depositano sul pavimento di graniglia, unica testimonianza del suo passaggio. Mi fermo e aspetto che scompaia. Non so chi sia, forse la nuova inquilina del secondo piano sospeso o solo un ombra.

Lentamente mi incammino ripercorrendo i passi della sconosciuta, le gocce di poggia depositate dal suo ombrello rendono scivoloso il pavimento, l’ ascensore avverte la mia presenza, mi accoglie sollevandomi verso il quarto piano, verso il mio ultimo rifugio.

Il pulsante del piano “T” lampeggia, non si può’ accedere.

Entro direttamente nel mio cubo del quarto piano, luminoso nonostante le nubi basse, silenzioso e vuoto come se qualcuno avesse appena traslocato. Solo che quel qualcuno sono io. Sparito il vecchio divano ad angolo, sparita la cabina azzurra del bagno Piero, le foto, il vaso; tutto è occupato da un vecchio tappeto che ricopre l’ intera superficie.

Due casse in legno accostate fungono da tavolino provvisorio su cui resta appoggiato un libro di poesie di Montale, “Ossi di Seppia”. Mi siedo un attimo a terra, cerco di spostare una cassa ma e’ stranamente pesante e tintinna, un lato e’ aperto e mostra una serie di vecchie bottiglie, semivuote o sigillate.

Ossi di Seppia-Oscar Mondadori

La cassa è piena di liquori di marca scadente, quelli che si tenevano in casa nei primi anni 80; Whisky Johnnie Walker, Unicum, Amaro Averna, Burbon, Grand Marnier. Ne sfilo una, quella di Grand Marnier, ricordo che lo usavano a casa per aggiungere aroma alle uova sbattute con lo zucchero. Ne bevo un sorso a collo, nauseante e dolciastro come lo ricordavo. Non mi inquieta il vuoto, non mi aspettavo di trovare nulla qui oggi, solo la mia precarietà.

E quella c’ e’, perfettamente rappresentata dalle poesie di Montale, dall’ alcol guasto e dal tappeto Isfahan annodato a mano che il tempo ha reso uno straccio in disfacimento, nodo dopo nodo. Precario anche lui.

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BEFORE GENERATION ITALY

L’ ITALIA SPERA, RIAPRE MA RIPARTE SEMPRE DALLA OLD GENERATION ECONOMY

di Cristina Battioni

Domani, 26 Aprile l’ Italia riapre, o meglio, il Nord iperproduttivo si tinge di giallo e riapre, con le dovute precauzioni da rischio ragionato.

Non e’ cosi ma vogliamo talmente credere alla narrazione da percepirla come verosimile. Abilissima mossa mediatica collegare il 25 aprile con la riapertura e la presunta liberazione dal virus. Niente di più falso ma niente di più vendibile agli acquirenti forgiati dalla cultura nazional popolare.

Prepariamoci a festeggiare la fine della guerra; il Covid spaventato arretra, l’estate alle porte e la manna che sta per piovere dal cielo a stelle dell’ Europa benefattrice ce lo consentono. La trama ha una sceneggiatura modesta: il Salvatore scende dal cielo del capitalismo finanziario, crea un nuovo Governo di unità nazionale, elimina gli incompetenti, sostituendoli con i primi della classe (?), cambia passo alla campagna vaccinale anche in assenza di vaccini, ci libera dal male, fa scendere la curva pandemica piano piano, per non dare nell’ occhio, mentre 220 miliardi arriveranno a pioggia dissetando l’ economia appassita ed arsa.

Un nuovo piano Marshall ricostruirà il paese, porterà benessere, migliaia di nuovi posti di lavoro, strade nuove, ponti, aziende, fabbriche, ospedali moderni, tutti tecnologici ed ecosostenibili. Ecco servito l’ happy end. Applausi e commozione.

E siccome lo spot ci piace, gli crediamo e compriamo il prodotto. L’ entusiasmo talvolta prende il sopravvento sulla ragione. Conseguenza: si ricomincia da dove ci eravamo interrotti: cambieremo auto, a rate, compreremo casa, con il mutuo, acquisteremo qualunque cosa con il “pay later“; tanto stanno per pioverci addosso 220 miliardi, possiamo anche cominciare ad opzionare voli e case per le vacanze.

Ma la realtà? E’ brutta e non la mandiamo in onda.

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BREVE LETTERA AL SIG. GRILLO SULLA GIUSTIZIA

IL VIDEO VIRALE DI GRILLO DANNEGGIA SE STESSO ED IL FIGLIO MA AIUTA LA “MALAGIUSTIZIA”

di Cristina Battioni

Beppe Grillo dal suo blog personale, http://www.beppegrillo.it, mette in rete un video di dubbio gusto, forse sceneggiato da un esorcista; come posseduto da demoni furiosi si lancia in spropositi a difesa del proprio bambino, accusato di presunto stupro di gruppo.

La prende “sul personale”, sbaglia obbiettivo e ricava solo una cascata di critiche.

In pochi minuti di concitazione sconclusionata perde consensi ed offende, comunque, i diritti delle donne, riduce a bravate i comportamenti discutibili di individui maggiorenni; in pratica costruisce un disastro di comunicazione mediatica.

Crea una catastrofe mediatica e perde l’ occasione di cavalcare una battaglia per una giustizia riformata, più efficiente, giusta e civile.

Purtroppo, Sig. Beppe, i casi di ingiusta detenzione sono ogni anno un migliaio in Italia (bilancio del Ministero italiano della Giustizia 2017-2019); detto in parole povere vi sono in media 1000 persone che subiscono l’ arresto e il carcere senza che vi fossero accuse o presupposti fondati ma, sicuramente, per disposizione di un magistrato, pm o giudice. Nel suddetto triennio sono stati soltanto 53 i magistrati sottoposti ad azioni disciplinari.

Purtroppo, o per fortuna, queste mille persone non hanno un blog o la visibilità per urlare il loro dolore e la loro rabbia.

Anziché sprecare la sua immagine per difendere un maggiorenne ed offendere con termini maschilistici ed insopportabili, non una ragazza, ma tutto l’ universo femminile, avrebbe ricevuto più solidarietà e consenso urlando il vero problema che affligge, consuma e rovina migliaia di italiani in Italia : la “malagiustizia”.

Vede, Sig. Grillo, non è un problema personale e, casomai, i panni sporchi si lavano in casa ma se i panni sporchi sono quelli di un sistema da riformare e dannoso, quelli sì, si possono spiegare in pubblico. A beneficio di tutti.

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NON SI MUORE SOLO DI COVID (SECONDA PARTE)

I CONDANNATI AD UN ETERNO LOCKDOWN

242.586 DECESSI PER TUMORE O MALATTIE DEGENERATIVE NEL 2020, UNA CITTA’ SCOMPARSA DI CUI NESSUNO PARLA

di Cristina Battioni

La strage perpetuata dal Covid con le sue 117.000 vittime, la corsa ai vaccini, le chiusure e riaperture ci hanno distratto da tutto il resto. Si moriva anche prima del febbraio 2020 e si continua a morire senza poter scegliere, con dignità, il come.

Ora l’ attenzione popolare è monopolizzata dalla promessa di un prossimo “tana libera tutti” del Governo Draghi, da quel “rischio ragionato” che ci fa dimenticare anche la realtà oggettiva, ancora, pericolosamente, pandemica. Il nuovo leader del PD, rientrato dalla ville lumiere, vende il futuro proponendo lo Ius soli ed il voto ai sedicenni. Tutti gli altri si preoccupano di intestarsi eventuali risultati positivi o, semmai, di rinnegare i negativi.

Il resto è fermo, sembra non avere più alcuna importanza. Ma perché mentre la Spagna approva il diritto all’ eutanasia legale, il nostro Parlamento si dimentica completamente delle migliaia di persone costrette ad un lockdown eterno da malattie che trasformano il corpo in una gabbia soffocante? Per loro non ci sono promesse di vaccini o date di riapertura, nessuno ne parla, non esistono.

Il rapporto AIOM 2020 ha stimato 377.000 casi di nuovi tumori in Italia nel 2020 e il decesso di 183.200 persone. Già nel 2014, da fonti Istat, i morti per bronchite cronica ed enfisema erano 33.386, quelli per complicanze da demenza o Alzheimer 26.000, con curva in crescita costante.

Riassumo, ogni anno volano via almeno 240.000 vite non a causa del Covid ma a causa di tumori o di malattie degenerative ed incurabili. Una città di persone che scompaiono dopo aver subito chemio, cure sperimentali, peg, sbarre ai letti, piaghe da decubito, infezioni, polmoniti. Una città di anonimi, segregati in un organismo ostile che li condanna e toglie loro, giorno dopo giorno, ogni dignità.

Valeria Imbrogno, con la creazione di una helpline in memoria del suo compagno, Fabiano Antoniani, più noto come Dj Fabo, ci ricorda la via crucis di un ragazzo di 36 anni, tetraplegico, cieco e nutrito con un sondino, costretto a fuggire in Svizzera, con l’ aiuto di Marco Cappato, per poter addormentarsi dignitosamente in una clinica di Zurigo.

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NON SI MUORE SOLO DI COVID (PRIMA PARTE)

I condannati ad un eterno lockdown

I° Tempo-Prefazione dedicata alla Scala B

di Cristina Battioni

Mentre il paese si appresta a riaprire io torno a chiudermi nel mio cubo sospeso al quarto piano della Scala B. Mi sto nuovamente perdendo in un tempo confuso tra vaccini che vanno e vengono in ordine sparso. Il disordine mentale stanca. Quando le porte dell’ ascensore si sono aperte sulla mia stanza segreta l’ ho trovata vuota, sono rimasti solo il grande divano e la cabina azzurra del Bagno Piero, spariti i libri, le foto, il vaso di fiori.

E’ vuota, come me. L’ esterno come l’ interno. Vediamo ciò che siamo. “Silenzio e vuoto” come scriveva Forster.

Devo mettere ordine, togliere la polvere dai pensieri e ritrovare il mio equilibrio provvisorio. Ho solo risposte ma mi mancano le domande. Sono qui e non mi chiedo più il perché. So di dividere questo spazio intangibile con estranei dispersi come me, solo questo mi rincuora.

Già, estranei, così parrebbe. Eppure risuoniamo, non abbiamo bisogno di mettere insieme parole o indagini per comunicare. Le persone, quando abbandonano il loro ruolo sociale, agito o subito, non hanno bisogno di raccontarsi la loro storia, la portano addosso.

Siamo tutti sul punto della resa, ad un millimetro dalla rassegnazione, la sentiamo, possiamo sfiorarla ma continuiamo a procrastinarla.

C’è tutto un tempo che scorre e tracima fuori di qui, trascinandoci tutti nell’ inconsapevolezza più cieca. Nessuno si fa più domande, tutti fingiamo di credere alle risposte che qualcuno confeziona per noi.

Oggi il silenzio è assoluto, parrebbe una domenica di diserzione alla Scala B.

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BABY BOOM? NO, GRAZIE. E’ TEMPO DI “PET” BOOM.

Gli animali da affezione sono i “nuovi figli”

https://youtube.com/watch?v=FkXUYu7nsx4&feature=share

di Cristina Battioni

“E tu hai figli?”, quante volte vi avranno fatto questa domanda, magari incontrando un conoscente o un ex compagno di scuola perso di vista.

Se, fino a qualche anno fa, la risposta sarebbe stata :”No, non sono venuti”, seguita da una serie di spiegazioni e giustificazioni, spesso fastidiose, non richieste e non dovute; ora la risposta più comune è: “No, ma ho un cane fantastico”. Naturalmente la parola cane può essere sostituita da gatto, coniglio, furetto o qualsiasi “animale da affezione”; dal pesce rosso al cavallo.

Il dettaglio interessante non consiste tanto nell’ affermazione di essere l’ orgoglioso proprietario di un cane o di un animale, a cui si è particolarmente affezionati, ma nel sostituirlo, a tutti gli effetti, ad un famigliare. E’ ovviamente preferibile questa risposta al sentirsi obbligati a giustificare l’ assenza di figli o legami parentali, soprattutto a perfetti estranei, ma è sorprendente il fenomeno che sottende.

I dati del Censis rivelano la presenza di 32 milioni di animali domestici nelle case italiane, veri e propri residenti nel 52% delle nostre abitazioni, soprattutto in quelle di separati e divorziati (68%) e di single (54%). Con 53,1 animali da compagnia ogni 100 abitanti, l’ Italia si colloca al primo posto in Europa.

I nostri “nuovi figli” sono 12,9 milioni di volatili, 7,5 milioni di gatti, 7 milioni di cani, 1,8 milioni di criceti e conigli, 1,6 milioni di pesci, 1,3 milioni di rettili, oltre ad una quantità non specificata di “vario” (furetti, topolini, tartarughe, papere, asini e oche).

Nell’ indagine condotta da Eurispes emerge che, in questo tempo di crisi, per garantire il benessere e l’ alimentazione dei propri figli adottivi, la maggioranza dei proprietari affronta una spesa di circa 50 euro al mese, mentre il 35% si ferma attorno ai 30 euro. L’ associazione consumatori Adoc, considerando solo cani e gatti, ha calcolato per un cane di taglia piccola una spesa media di 1800 euro l’anno, per un micio di quasi 800 euro. E’ il 70% in più rispetto a dieci anni fa.

Stiamo sviluppando un rapporto sempre più simbiotico e parentale con i nostri animali. In alcuni casi si tratta di un legame salvifico, soprattutto per le persone più anziane, come dimostra uno studio condotto da Senior Italia Federazioni; per 9 over 65 su 10 vivere con un animale domestico migliora la qualità della vita, riduce la sensazione di solitudine ed aumenta quella di serenità, induce a muoversi di più e a sentirsi meglio.

L’ unico rischio consiste nell’ eccessiva enfatizzazione della relazione con i propri animali sostenuta dall’ ingenuità, dalla purezza, dai sentimenti di tenerezza da questi evocati tanto da essere, di fatto, adottati da persone sole in subconscia sostituzione dei figli che non hanno potuto avere, o che sono lontani.

Ma l’ amore genitoriale verso un animaletto non è un’ esclusiva della fascia dei grandi anziani soli. Nella nostra società è in costante aumento il numero di persone che, più che amare, hanno un enorme bisogno di ricevere affetto incondizionato.

Il pet boom ed i consumi connessi, rivelano aspetti di fragilità e solitudine della società contemporanea, vuoti sentimentali ed affettivi, bisogni inespressi o irrealizzabili.

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LA RESPONSABILITA’ “PERSONALE”? ESAURITA E FUORI PRODUZIONE

Alla ricerca di “qualcosa di personale”

Una scia d’ Inverno congela l’ ultimo week end in zona rossa, la Primavera resta sospesa tra terra e cielo mentre la pandemia rispetta lo scadenzario quotidiano dei funerali a porte chiuse, indifferente all’ andamento della curva pandemica e del Rt nazionale.

L’ Italia delle regioni torna ad essere la fragile terra di stati e staterelli che, anziché unirsi, tendono a prevaricarsi. Nè draghi arrabbiati, né generali decorati, né speranze, sempre più pallide, riescono a far filtrare uno spiraglio di luce .

L’ ombra dell’ incertezza sembra dominare su tutto, sulla rassegnazione, sul caos, sulle tensioni sociali. L’ incertezza, soprattutto in democrazia, rischia di trasformarsi improvvisamente in fragilità, la fragilità in rottura.

Siamo tutti sospesi, come la Primavera, come le lezioni nelle scuole, come i collegamenti in Dad che vanno e vengono, come la somministrazione dei vaccini che sta perdendo la tracciabilità, esattamente come il virus.

Il nuovo Presidente del Consiglio, Prof. Draghi, dopo essere stato accolto come l’ uomo dei miracoli, si costringe a celebrare una conferenza stampa, giusto per ribadire che lui non è Dio ma che, se boicottano anche lui, non ci resta più nessuna carta da giocare. Si prende le colpe, da buon capro espiatorio, per salvarci da tensioni ben più pericolose senza omettere, anzi sottolineando, che le responsabilità sono anche personali.

Lui fa quello che può con quello che ha; e quello che ha è un paese in frizione perenne schiacciato tra due governi, il suo ed un’ accozzaglia di disarmonici governi regionali, talvolta investiti da eccessivo potere e visibilità.

Ma tutto è personale in questo paese. Ogni danno subito, ogni torto, ogni successo, ogni evento viene vissuto dal singolo e non dalla comunità. Tranne le colpe, quelle non appartengono a nessuno, sono endemiche al sistema, le sue zone d’ ombra, senza mai chiarire di quale “sistema si tratti”.

Oggi ho un appuntamento dal Notaio, eccezionalmente di sabato; speravo si potesse risolvere con uno scambio telematico di carteggi ma, purtroppo, le successioni richiedono la firma in presenza.

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PARMA, DA PICCOLA PARIGI DEI FARNESE A “DISCOUNT” MADE IN IOWA

Tardini: la “riqualificazione”dello stadio e il declassamento della città.

di Cristina Battioni

E’ “Lo stadio più bello del mondo” l’ ultimo regalo che la giunta Pizzarotti vuole fare a questa città. Un dono costoso, non propriamente prioritario, reso magicamente possibile dal definire “riqualificazione” quella che sarà la depauperazione di un lotto non edificabile di 36.725 mq, posto esattamente in uno dei quartieri più belli e centrali di Parma.

La suddetta “riqualificazione” si sta trasformando, in realtà, nella realizzazione di un’ astronave monolitica in cemento e acciaio di 7 piani, pronta ad ospitare un vero e proprio centro commerciale, dotato di parcheggi sotterranei ed aperto 7 giorni su 7.

“Lo stadio più’ bello del mondo”, stando alle dichiarazioni di Kyle Krause, neo proprietario e presidente del Parma Calcio 1913, sarà parte di un progetto ecosostenibile, studiato per migliorare ed abbellire il quartiere tra i grandi viali, la Cittadella ed il Lungo Parma.

L’ elaborazione, blindatissima, affidata all’ architetto Alessandro Doppini, prevede la creazione di 20.000 mq di spazi pubblici, parcheggi sotterranei, ristoranti, bar, negozi, markets, shops e chi più ne ha più ne metta. Il progetto, solo narrato, ma mai reso pubblico nei dettagli, è già stato presentato in Consiglio comunale ed entro un mese dovrebbe divenire definitivo. A fronte di un investimento di 70 milioni di euro il Comune garantirà al Gruppo Krause la concezione d’ uso dell’ area per i prossimi 40 anni, indipendentemente dalle alterne fortune, o sfortune, della squadra di calcio cittadina.

Un vero benefattore Mister Krause, verrebbe da pensare; volato dal centro dell’ Iowa per rilevare il 90% della Parma Calcio 1913 srl da noti imprenditori locali (Guido Barilla, Giampaolo Dallara, Mauro Del Rio, Marco Ferrari, Angelo Gandolfi, Paolo e Pietro Pizzarotti ) in un momento di difficoltà economica e, conseguentemente, per rilanciare la squadra verso traguardi ambiziosi.

Benefattore che ha anche acquisito il 99% del Progetto Stadio Parma srl, società nata per la riqualificazione dello stadio e rilevata da Krause solo per regalare alla città quello che lui stesso definisce “lo stadio più’ bello, prima d’ Italia, poi del mondo”. Un monumento personale e sempiterno, un saggio di modernità e vivibilità omaggiato della sua famiglia a tutta la cittadinanza. Quanta generosità, verrebbe da dire.

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“LE LACRIME DI GIOBBE”

Seconda Resurrezione d.Cv. (Sospesi tra sacro e profano.)

Dedicata a “F.” e a tutti gli arrivederci..https://youtube.com/watch?v=kNWX_XWsNYY&feature=share

di Cristina Battioni

Venerdì Santo, due giorni a Pasqua, la seconda Pasqua d.Cv, la seconda Resurrezione dopo l’evento con la “E” maiuscola; non la nostra, purtroppo.

La Primavera è risorta dall’ Inverno in un esplosione precoce ed incontenibile, quasi si rifiutasse di restare, anche lei, in lockdown.

Il caldo improvviso ha ingannato anche le Peonie, rose perfette senza spine che si illuminavano con le lucciole di maggio. E’ tutto in anticipo, come se non ci fosse tempo, quasi la Natura avvertisse l’ urgenza di svegliarsi e correre.

Quando tutto diventa veloce, i sospesi rallentano. Si smarriscono. La bellezza dei giardini, dei colori, della luce disorienta, la bellezza è pericolosa perché implica un desiderio di condivisione. Mi fa male vedere i petali della magnolia cadere come barchette rosa su un mare verde, mi ricordano chi l’ ha piantata.

Ogni cosa meravigliosa in natura ed indipendente dalla nostra volontà sottolinea l’ assenza di qualcuno.

Il mondo visto da una prospettiva solitaria può offrire immagini perfette ma non attimi perfetti. E’ il limite della solitudine, anche della più collaudata o desiderata; l’ impossibilità di condividere la bellezza e da quella condivisione provare un istante, seppur fuggevole, di gioia.

Nonostante i divieti c’é tanta gente in giro, a piedi, in bicicletta, sui monopattini, le prime braccia nude nei parchi, runners che corrono, bambini che giocano; c’è tutta un umanità in fermento tra approvvigionamenti alimentari, uova di cioccolato, auguri via sms. Ci stiamo abituando, forse, alla nuova normalità, avremo mascherine colorate e feste distanziate ma, con grande determinazione, proviamo ad essere esattamente come prima.

Ma prima era prima, ieri il bollettino di guerra indicava 3.681 persone impegnate in una via Crucis pronata nelle terapie intensive e 481 decessi non destinati alla resurrezione. Vorrei avere “la fede”, ci sono giorni in cui la desidererei come un dono prezioso. Vorrei entrare in una chiesa, pregare piano, sentire sollievo. Ma non sono capace, l’ ho scordato o, forse, non ne ho mai avuto la reale predisposizione.

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NO NEWS IS GOOD NEWS?

L’ ASSENZA DI NOTIZIE E’ UNA NOTIZIA

di Cristina Battioni

Provate a fare una sintetica rassegna stampa in questi giorni pre- pasquali; prendete a caso i quotidiani più venduti, sintonizzatevi sui principali telegiornali, sbirciate nei canali all news o nelle testate on line.

Potrete facilmente osservare come in prima pagina sia tornato, fastidiosamente, il predominio della politica interna, o meglio, degli scontri tra correnti interne alla maggioranza o ai partiti stessi; come vengano dedicati ripetuti articoli al redivivo On. Renzi che fa il “turista per caso” negli Emirati Arabi, alla “faida” tra donne del Pd che si accusano a vicenda per una poltrona; mentre tendono, proporzionalmente, a ridursi le notizie sulla pandemia, se non limitatamente alle polemica riguardanti i ritardi delle campagne vaccinali o agli scandali regionali.

Tornano alla mente le parole di Scalfari che, negli anni 70, riuniva la redazione di Repubblica ripetendo il suo celebre mantra: “bene, se non ci sono notizie, riempiamo le pagine di politica interna”.

Lezione mai dimenticata se osserviamo le pagine interne dei giornali:, beghe nel PD mai risorto e semmai già affondato dalle proposte, quasi burlesche, del Prof. Letta : “diamo il voto ai sedicenni e potere nel partito alle donne”, donne che già si strappano i capelli tra loro. Tre pagine servite. Il sempiterno Salvini con le sue uscite da campagna elettorale e qualche amico discutibile. Altre due pagine stampate. Il nuovo partito di Conte e la diaspora dei Cinque Stelle, che non si sa cosa sia, altra pagina pronta. Il resto si riempie con le lotte a coltello tra i Governatori di Regione che, nel loro splendore, si denigrano a vicenda.

Seguono altre pagine interne dedicate al gigantesco cargo, con foto quasi a dimensione reale, che si è messo di traverso, per puro scherzo del destino, tappando il Canale di Suez e riducendolo ad un ingorgo ferragostano. Nei telegiornali si susseguono ripetizioni infinite di misure già prese e spiegate sul modesto lockdown di Pasqua, caratterizzato più da quel che si può fare, che non da quello che non si può fare.

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“LA CORRESPONDANCE”

Lidia e Amedeo, 2008-2021

Eravamo insieme e tutto il resto l’ ho scordato”

“L’ amore non esiste, non come ce lo siamo raccontati”, mi sussurra Nolente senza smettere di fissare il cielo. La pelle sottile del collo lascia intravvedere le linee delle vene, fragili rilievi azzurro polvere, in nuance con il suo lungo abito di mohair.

Ricorda un airone cinerino senza piume, elegante ma spogliato dalle molte età che ha sorvolato. E’ ancora bella, di quelle bellezze che il tempo rispetta, si limita ad eliminarne il superfluo, senza intaccarne l’ essenza.

L’ essenza della sua grazia è disegnata nel taglio degli occhi, nella lunghezza delle ciglia sottili che imprigionano ogni singola lacrima, ogni minuscolo cristallo caleidoscopio che regala bagliori improvvisi al suo sguardo rassegnato. La sua essenza è nel profumo di fiori che emanano i capelli quando, liberati dall’ austera treccia, sembrano onde di un mare lontano.

La consumata eleganza di Nolente sopravvive nelle linee del suo corpo, negli angoli acuti di un volto che non subisce la forza di gravità, nelle leve lunghe di braccia e gambe sottili ancorate ad un busto che sembra potersi spezzare al primo colpo di vento. Nolente è un essere grigio e celeste, incatenato alla terra ma tendente al cielo.

Oggi non stringe tra le mani un libro di poesie ma una copia di “Repubblica” del 21 marzo, un giornale sospeso che Seppia deve averle consegnato solo oggi.

Me la porge, senza abbassare lo sguardo, “Vede, ogni 21 marzo io cerco questo piccolo trafiletto, non e’ mai mancato, mai”. Mi siedo accanto a lei e noto un piccolo inserto nascosto in una pagina interna dell’ edizione romana del quotidiano. Sembra un necrologio ma leggendolo perde l’ aura scura e si rivela un delicato messaggio in codice per Lidia Giordani : “Eravamo insieme, tutto il resto l’ ho dimenticato. Amedeo”.

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VACCINAZIONI:IL GIRONE DEI “GRANDI FRAGILI”

#NESSUNOSPRECHIUNVACCINO

25 MARZO 2021, ritorno al centro vaccinale Palaponti.

Dopo tre settimane esatte dalla somministrazione della prima dose vaccinale, il girone “Grandi Anziani” delle 10.30 si ricompone all’ ingresso del centro polisportivo trasformato in hub vaccinale.

Ma qualcosa è cambiato. L’ accesso alle auto private è bloccato, si entra a piedi o in carrozzina. Possono oltrepassare il cancello solo le ambulanze o i mezzi adibiti al trasporto dei cosiddetti disabili “gravi”. Siamo in tanti stamattina, si percepisce una breve coda fluire nel viale.

Le panchine sono occupate dagli over 86, ciascuno con il suo accompagnatore, che osservano sfilare i componenti di un altro girone, quello dei “grandi inabili”. Sommandoli si ottiene un pallido ed inedito puzzle.

Due generazioni lontane nel tempo ma mai così vicine nello spazio; i fragili si fondono generando un mondo a parte, da maneggiare con cura. Mio padre osserva altri padri, uno tiene a braccetto un figlio disorientato e scardinato, qualcuno spinge una carrozzina, tutti in bilico tra consapevolezza ed inconsapevolezza. Tutti in coda, tutti affiancati, aggrappati, educati e silenziosi. La sfilata dei nipoti pallidi inibisce qualsiasi lamentela o commento sull’ attesa da parte dei nonni putativi.

Sono rari i luoghi dove si percepisce così concretamente la fragilità umana. In uno spazio aperto, fortunatamente illuminato da un sole generoso e tiepido, si rivela, senza sfumature, quella parte di mondo che preferiamo non osservare troppo e, non solo, per discrezione.

Sono tutti diversi i convocati delle 10.30 ma tutti caratterizzati da un pallore che testimonia un lockdown esistenziale preesistente a quello ministeriale. Sono tutti malati in questi due gironi che si sfiorano per confluire nello stessa fragile categoria; i “grandi anziani” sono stati aggrediti e consumati dalle salite della vita, “i grandi disabili” sono nati lottando in salita. Entrambi non sono autonomi ; dipendono, hanno perso o non hanno mai conosciuto la libertà.

I fragili sono schiavi della disabilità, sono bloccati da un corpo nemico che diventa carcere , da sinapsi difettose o da una misteriosa ed inspiegabile trisomia dei cromosomi.

Con qualche minuto di ritardo, rispetto alla tabella di marcia, la sicurezza filtra gli ingressi, dopo numerose e vane chiamate rivolte al “personale scolastico”, assente ingiustificato, procede con il check in del girone “Grandi fragili delle 10.30”.

All’ interno del padiglione ci moltiplichiamo, i corridoi di distanziamento pre e post vaccino sono quasi pieni; disabili, anziani e accompagnatori si mescolano creando, involontariamente, l’ immagine di un piccolo circo itinerante. I volenterosi volontari, con le loro maglie colorate e le mascherine decorate con grandi sorrisi da clown, creano macchie di colore che interrompono il pallore ; il brusio di fondo è interrotto a tratti da piccole urla o risate; gli addetti alla sicurezza sembrano i controllori del pubblico prima di uno spettacolo, “Che numero avete? Perfetto, seguitemi e accomodatevi lì,… due poltrone in quarta fila.”

intanto il turnover vaccinale procede, numero 130; eccomi, supero velocemente l’ accettazione e ricevo un nuovo numero, 138, per il colloquio ambulatoriale ; torno al mio posto, sempre guidata a distanza di sicurezza. A tratti si avverte una repentina spinta sull’ acceleratore; tutti cercano di essere piu’ veloci, di vaccinare più’ persone, sfidando una difficoltà incrementata. Purtroppo vaccinare un grande disabile non sempre è possibile e, soprattutto, non sempre è facile.

C’è chi va via spingendo una carrozzina e spiegando al conduttore di ambulanza in attesa che : “No, purtroppo non si può fare…”. Sentendo quel “non si può fare” pronunciato con equilibrio e dolcezza, senza rabbia o risentimento; sprofondo io, sprofonda mio padre, sprofondiamo tutti nella nostra inadeguatezza.

Ma chi sono i “grandi disabili”? La miglior risposta l’ ho trovata in un libro, “Caregiving famigliare e disabilità gravissima. Una ricerca fatta a Torino“. Le autrici (Cecilia Marchisio e Natascha Curto)” li definiscono “Persone che necessitano di assistenza continua , 24 ore su 24, l’ interruzione della quale, anche per un periodo molto breve, può portare a complicanze gravi o anche alla morte”.

Persone che vivono perché qualcuno le tiene costantemente per mano, in simbiosi con una madre, un padre, un fratello, un pedagogista, un volontario; esattamente quello che sta avvenendo ora e qui, non in teoria.

L’ Istat, nell’ ultimo studio del 2015, stima in 3,1 milioni gli italiani con limitazioni funzionali gravi dai 15 anni in su, di cui 1.153.000 non percepiscono l’ indennità di accompagnamento. Si deduce facilmente come e perché la mano che li tiene in vita sia quella di un famigliare.

La disabilità grave colpisce quasi 9 milioni di famiglie, prima del Covid, durante la pandemia e, purtroppo, non verrà sconfitta da una dose vaccinale. Esiste una parte di umanità costantemente messa alla prova e costretta a contare solo sulle proprie forze, su quelle dell’ amore incondizionato e sulla solidarietà. Paradossalmente e’ una parte silenziosa, dignitosa e rispettosa delle regole.

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SCANZI, FURBETTO DA GIORNALINO ?

DOPO IL VACCINO CHIEDE GLI APPLAUSI

di Cristina Battioni

Andrea Scanzi, 47enne giornalista de ” Il Fatto quotidiano “, ottiene il vaccino AstraZenica sabato 20 marzo presso La Hub Vaccinale di Arezzo.

Tutto regolare, sostiene l’ interessato, in qualche modo legittimo; essendo iscritto nelle file dei “panchinari” è stato convocato nel tardo pomeriggio per non sprecare le dosi inutilizzate a causa delle defezioni.

Diamo per buona la versione, benché queste liste di attesa dei “panchinari”, compilate dai medici di base esistono, probabilmente, solo in alcune località. Per rispetto di quanto dichiarato dal medesimo, la somministrazione gli era dovuta, in quanto figlio unico di due genitori fragili.

Nulla da obiettare e massima comprensione. Sebbene in Italia esistano migliaia di care givers che non sono stati ancora iscritti in nessun elenco vaccinale. Tra loro anch’ io. Ma si sa, l’ Italia è ancora un paese di Stati e staterelli, come diceva Macchiavelli e le regole variano da Governatore a Governatore.

Nessuno mette in dubbio la liceità della somministrazione ricevuta da Scanzi, benché sia esattamente agli antipodi di quanto suggerito dal Presidente Mattarella che ha pubblicamente atteso il suo turno recandosi, come il più normale dei cittadini, presso l’ Hub di Pratica di Mare, con la sobrietà che, solitamente, va a braccetto con l’ autorevolezza.

Il Dott. Scanzi, se chiamato dalla AUSL competente, ha fatto benissimo a vaccinarsi ma ha fatto malissimo a dimenticarsi il suo ruolo di giornalista rampante per una testata, “II Fatto quotidiano”, che ha basato la sua crescente popolarità sull’ essere dichiaratamente priva di sovvenzioni pubbliche, fuori dal coro e, teoricamente, non schierata politicamente. Cosa sulla quale si potrebbe lungamente discutere.

Comunque sia, il social- giornalista ha cavalcato quella che poteva essere una notizia a suo favore al contrario. Forse è stato vittima di una delle impreviste reazioni del vituperato vaccino che, nel suo caso, ha sdoganato i freni inibitori di un super ego, già molto presente nel suo organismo.

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EQUINOZIO DI PRIMAVERA (II d.Cv.)

Ma la nuova “stagione” tarda ad arrivare

di Cristina Battioni

In questa notte di passaggio il sonno mi appare come un miraggio.

Sara’ colpa della congiunzione astrale, delle stagioni che si ostinano a cambiare mentre nulla cambia o dell’ effetto “dèjà- vu” di una Primavera che da due ore sostituisce ufficialmente l’ Inverno, la seconda Primavera d.Cv (dopo Covid), fotocopia precisa della precedente?

Nel tempo reale, che non sottostà alle nostre misure artificiose, è Primavera da 16 ore ma, nel mondo delle convenzioni, fingiamo che il Sole arrivi sempre in ritardo allo Zenit dell’ equatore, semplifichiamo e standardizziamo, come d’ abitudine.

Questa notte ha la stessa durata del giorno, le ore scure cominciano ad arretrare, l’ alba anticiperà il salvataggio di chi ha perso il sonno e non lo ha più trovato.

Il sonno si perde per strada, sbadatamente; notte dopo notte speri di sentirlo salire per le scale, lo aspetti, lo desideri come un’ amante, ma lui non torna più. Gli insonni non sognano ma i minuti sono i loro incubi. Dalle due alle cinque il tempo si dilata, non ore ma anni che si rincorrono con le loro domande urgenti di risposte da trovare, possibilmente, prima che faccia giorno.

L’ aurora è un sollievo, ti salva dai fantasmi, dai processi, dai bilanci e dalle televendite.

Questa si preannuncia una notte lunga e faticosa; bevo, apro la finestra, sudo anche se fuori è ancora freddo. Il silenzio del coprifuoco è assoluto, sembra di assistere alla replica di un film muto . Sono le due, ogni speranza di riposare è svanita, l’ orologio ha già rallentato; la paura dei miei monologhi sta per invadermi.

“Ogni notte per me è tempesta di misteri”www.aldamerini.it

Prima che la nostalgia del passato torni, nella sua forma peggiore, prima che l’ indifferenza sul futuro mi disarmi, mentre il presente è assente, decido di scrivere B sul palmo della mano.

Chiudo gli occhi, come da istruzioni di Seppia, per un istante sento freddo, poi, più niente. Quando li riapro sono nell’ ascensore della Scala B che mi conduce verso il mio cubo sospeso del quinto piano.

Entrando avverto solo la piacevole sensazione di chi torna dove è atteso. L’ abat-jour diffonde la sua luce tranquillizzante, sul tavolino trovo una tazza di latte caldo e un piattino di biscotti tiepidi, grossi ed irregolari, come fatti in casa. Mi sdraio sul divano, inzuppo un biscotto e mi infilo sotto una plaid emerso dal mio solaio ma profumato, fresco di bucato.

Guardo le foto appese alle pareti senza soluzione cronologica di continuità, apparentemente disposte in ordine sparso ma, osservandole attentamente, mi accorgo che formano un diagramma a barre.

La vita a segmenti, i giorni migliori in alto, i giorni peggiori a metà parete . Ora, metterei un like a tutti, i peggiori non erano poi tali.

Resto ipnotizzata per qualche minuto; qui, dove non esiste il tempo, il passato riempie il presente, il futuro non è una minaccia, la notte non mi fa più paura.

Tenui note riempiono con discrezione il mio piccolo spazio, le percepisco appena, non abbastanza da decifrane la provenienza. Mi concentro e si trasformano in una partitura, si armonizzano e mi permettono di tradurle in musica.

Qualcuno sta suonando la chitarra, con inesperte dita leggere fa vibrare le corde; qualcuno che ha imparato solo il primo giro di accordi di “Wish you were here”.https://youtube.com/watch?v=1tGO1Y4FGpl&feature=share

Un altro insonne si è fatto trasportare alla Scala B stanotte, almeno qui può suonare senza svegliare i “normali” sprofondati nel sonno dei giusti.

Avercelo il sonno dei giusti.

L’ arpeggio sembra una ninna nanna che culla me , i miei biscotti e le briciole che infestano il pigiama. Ogni cosa qui non è casuale, la musica fa parte dell’ alfabeto criptato di un codice emozionale. Se qualcuno suona, qualcuno risponde leggendo a se stesso una poesia di Alda Merini, qualcun’ altro fuma disperatamente in balcone. Ognuno comunica la sua solitudine come può e sfida la notte dell’ Equinozio.

Chissà se l’ Edicola al piano T è aperta in queste ore scure ? Sicuramente il giardino sarà deserto, anche nel tempo analogico il buio ed il freddo della prima notte di Primavera sono fastidiosi e poco attraenti. Mi arrotolo nel plaid scozzese e scendo a vedere.

Il giardino del piano T è avvolto dal buio , solo una piccola luce illumina il chiosco di Seppia senza Seppia. L’ edicola è chiusa ma tutti i balconi alle mie spalle sembrano mattoncini Lego sovrapposti e debolmente illuminati dalle presenze discrete degli inquilini.

Al primo piano Seppia emette nuvole di fumo , aspira la sigaretta e poi si diverte a svuotarsi i polmoni espirando una nuvola densa ed odorosa. Intanto scrive , non usa il pc ma una vecchia Olivetti, preme i tasti come un pianista nell’ eseguire una melodia di Chopin, probabilmente un Notturno.

Non mi vede e non mi sente, la sua attenzione annega in un flusso ininterrotto di parole.

Al quarto piano Stante, il notaio, continua a suonare la sua interpretazione personale dei Pink Floyd. Nolente dall’ ultimo balcone legge “Quelle come me” di Alda Merini, si interrompe sul finale, ride, poi ricomincia da capo il suo personale rosario.

Quando non piange ride; forse si riconosce nel testo e ride di se e di quella sana follia che le hanno represso e che lei chiamava “amore disperso”.https://youtube.com/watch?v=kc5dtqYCLQo&feature=share

Al secondo piano non c’ e’ nessuno, Ametista ha lasciato il lenzuolo bianco steso al balcone ma stanotte non è immacolato. Con un rossetto o un pastello rosso ha lasciato scritto un messaggio “Nessuno faceva caso ai suoi occhi, Tutti pensavano che fosse felice perché sorrideva”. E’ assente, probabilmente veglia i suoi bambini mentre dormono e tiene stretto il loro sonno affinché non li abbandoni mai. Probabilmente ha lasciato a sventolare il suo curriculum vitae; a volte bastano poche parole per riassumerci, basta saperle scegliere.

Mi siedo sulla panchina avvolta nella mia coperta pesante e osservo la vita degli altri fuggiaschi, ognuno con le sue notti sospese tra ciò che fanno e ciò che sentono e, nel vuoto tra dovere e volere, solo il buio, tra le due sponde, si fa materia trasformandosi nel grande fiume che separare il sopravvivere dal vivere.

Fa troppo freddo, l’ umidità fastidiosa e l’ assenza di Seppia mi rendendo malmostosa. Tutto quello che vorrei è una tiepida carezza famigliare che mi accompagni verso il mattino. La carezza non arriva, forse anche in Paradiso stanno riposando, ma, al suo posto, arriva un mugolio, l’ abbozzo di un breve guaito da cane di piccola taglia.

Ma non è possibile, qui non si può portare nessuno dal mondo esterno, come può esserci un cane? Probabilmente e’ rimasto imprigionato venerdì sera, dopo la chiusura degli uffici, nella Scala A del palazzo e ora, smarrito, piange.

No, non è rimasto chiuso negli uffici…il suo richiamo proviene dall’ Edicola sospesa. Mi avvicino lentamente mentre un muso marrone e puntuto si infila in uno spiraglio della piccola finestra e mi osserva.

Mi sembra un bassotto nano, gli occhi neri e svegli mi osservano curiosi mentre spinge con il muso il vetro nel tentativo, vano, di uscire…Non so se sia lecito ma lo aiuto…in un istante fa un balzo miracoloso sulle sue zampe ristrette e mi salta in braccio, lo afferro ricevendo una leccata sulla guancia e uno scodinzolo amichevole.

“E tu chi sei piccoletto , di chi sei ?” Sembra gradire il mio abbraccio che lo pone in posizione sopraelevata , un osservatorio di lusso per la sua altezza abituale. Ha un manto di velluto marrone , un collarino di velluto rosso e una medaglietta con incisione. La stanchezza oculare, l’ oscurità e l’ assenza dei miei occhiali non mi permettono di decifrare il testo.

Sentiamo entrambi uno schiocco di dita ; vuole scendere, lo adagio sul prato e lo osservo saltellare composto verso un’ ombra che esce dall’ ascensore.

E’ Seppia. Il quadrupede rasoterra gli corre incontro e cerca di scalarlo aggrappandosi ai polpacci, senza abbaiare. Il Prof. in vestaglia gli offre un bocconcino da sgranocchiare, mi indica al bassotto che si tranquillizza e lo segue come un segretario scrupoloso.

“Buona notte Kami, siete in tanti stasera per l’ Equinozio, ero nel mio cubo a riordinare; i giornali sospesi la notte sono ancora troppo freschi, nessuno scende a prenderli. Gli insonni leggono altre cose; poesie, spartiti e, soprattutto, i loro pensieri ingombranti. Mi spiace, se avessi avvertito la sua presenza sarei sceso prima”.

Mi imbarazza l’ averlo interrotto, in realtà neanch’ io volevo un giornale ma solo osservare la notte dall’ esterno, non riesco a produrre nulla se non una vaga giustificazione, “Mi scusi lei, sono scesa solo perché avevo bisogno d’aria poi ho incontrato il suo cane e mi sono fermata, non dovevo farlo uscire dal chiosco ma… sembrava chiamarmi e non ho resistito”.

Cane dal basso e presunto padrone dall’ alto mi guardano incuriositi, il primo sbadiglia , il secondo mi parla, “Ombra non è il mio cane, si infila spesso nel chiosco, gli piace l’ odore della stampa, adora dormire sulla carta e talvolta scende quando non c’ è nessuno per rotolarsi nel prato o per le sue necessità fisiologiche.”

Continua a parlare senza guardarmi, rivolgendo lo sguardo verso il basso , “Eh già Ombra, tu dormi qualche ora e poi vivi intensamente fino al successivo colpo di sonno, tu hai capito tutto .”

Ombra non risponde ma sembra approvare e mentre torna tra le mie braccia a darmi, lui, la carezza calda che desideravo, il suo presunto custode mi legge la medaglietta che ciondola dal collare scontrandosi con un campanellino : “Tutta la varietà , tutta la delizia , tutta la bellezza della vita e’ composta d’ ombra e di luce”.

Il bassotto intellettuale presumibilmente non conosceva Tolstoj ma chi ha scelto il suo nome si e conosceva le luci della ribalta e le ombre dei lockdown.

” Se vuole può’ tenerlo qui con lei, mi sembra stiate bene insieme”. E’ vero , la dolcezza e la vitalità del bassotto mi hanno fatto bene, hanno cancellato il groviglio di pensieri senza capo né coda che minacciavano di seguirmi fino all’ alba.

“La ringrazio ma temo prenda freddo anche lui, devo riporlo nel chiosco dove può scaldarsi e dormire sui giornali salvati dal macero?”

Seppia scuote la testa rimettendo in circolo odore di tabacco e aromi vari; “No, Ombra ha la sua cuccia al terzo piano, lui vive qui, è un inquilino che la Scala ha trovato mentre vagava a vuoto. Mi creda era il più sospeso di tutti quando è arrivato. Ha passato giorni raggomitolato in un angolo, sembrava l’ ombra di se stesso. Ma ora, lo vede, sta bene, la sua vita gli calza a pennello anche se non ha un padrone ha trovato il suo posto, è il padrone di se stesso e sta bene sulle sue zampe.”

Lo accarezzo per salutarlo mentre il suo custode si avvia verso l’ edicola e mi anticipa il giornale sospeso di un ieri appena superato. Lo prendo tra le mani, e’ “Il Fatto Quotidiano” del 20 marzo; strano, non è uno dei “miei” quotidiani e non l’ aveva mai tenuto per me.

Seppia ed Ombra si avviano, armonizzando il passo come buoni amici di vecchia data, verso l’ ascensore ; mi salutano entrambi con un sorriso e uno scodinzolo prima di sparire verso i loro cubi.


Continua a leggere “EQUINOZIO DI PRIMAVERA (II d.Cv.)”
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ASTRAZENECA E PFIZER : IL DIAVOLO E L’ ACQUASANTA?

Dopo il vaccino Pfizer stanno tutti bene?

di Cristina Battioni

Alla memoria delle perone che ci hanno lasciato, senza poter scegliere un vaccino-18/03/2021https://youtube.com/watch?v=NQ8zfRJfUuc&feature=share

In attesa delle decisioni definitive promesse da AIFA , la vaccinazione tramite fiale AstraZeneca è stata bloccata in 14 nazioni, tra cui l’ Italia, con un conseguente dannoso ritardo sulla campagna di immunità di massa che, mai come ora, avverrebbe bisogno di un’ accelerazione costante, al culmine delle terza ondata e in un momento di chiusure e distanziamenti.

Nonostante le rassicurazioni dell’ OMS sulla sicurezza del prodotto, nonostante le spiegazioni date dal Ministro della Salute riguardo il nesso di casualità tra vaccinazione e decessi, l’ opinione pubblica ormai ha avuto il suo imprinting.

L’ Imprinting dei volti , dei nomi e delle storie di persone decedute dopo essersi sottoposte al vaccino AstraZenica; di Anna Maria Mantile , insegnante napoletana (61 anni), del Maresciallo siciliano Giuseppe Maniscalco (54 anni), di Sandro Togliatti, docente musicale di Biella (57 anni).

Il comune denominatore di queste vite, drammaticamente interrotte, è l’ aver ricevuto il vaccino incriminato ma , soprattutto, l’ età.

Involontariamente o volontariamente è la loro “giovane età” ad aver alimentato le notizie, ad aver, fin da subito, occupato le aperture dei telegiornali, ad aver diffuso il panico prima che fossero a disposizione informazioni scientifiche e dettagliate.

E’ stato sufficiente rendere pubblici tre volti, tre nomi ed i corrispettivi dati anagrafici per far leva , irresponsabilmente, sulle paure collettive che sono più forti e radicate nel subconscio di qualsiasi assoluzione oggettiva ma tardiva.

Qualunque sarà la decisione dell’ OMS, appoggiata da prove scientifiche e dai referti delle autopsie, basterà a tranquillizzare milioni di persone già in lista per ricevere il vaccino Killer?

Perché mai nessuna prima pagina dei quotidiani o nessuna apertura di telegiornale ha elencato i decessi avvenuti dopo la somministrazione del vaccino Pfizer? Stanno tutti bene, godono tutti di ottima salute?

La Gran Bretagna ha diffuso i suoi dati ufficiali tramite il Ministro della Salute Hancock; su 20 milioni di persone vaccinate si sono osservati 275 decessi di cittadini immunizzati con dosi AstraZeneca e 227 decessi di immunizzati con vaccini Pfizer. In entrambi i casi si e’ spiegato che i decessi sono riconducibili solo ad una consequenzialità temporale, al caso, e non agli effetti collaterali dei suddetti preparati.

E in Italia? Stando al dashboard del Governo sono state vaccinate 1.093.800, almeno con una prima dose. La fascia dei “grandi anziani”, over 86 anni, sta completando il ciclo con la seconda somministrazione entro fine mese . Di loro nessuna notizia . Nessun decesso, nessuna trombosi, nessun problema circolatorio? Tutti risanati, senza effetti collaterali, da un’ acqua santa in fialette congelate?

La logica ci suggerirebbe che il vaccino Pfizer non è un “cocoon” e che, come purtroppo normalmente avviene in situazioni non pandemiche, i decessi, oltre una certa età, si possono verificare improvvisamente ed indipendentemente dalla somministrazione di farmaci.

Quindi, si potrebbe dedurre che anche qualcuno fra loro sia mancato nella discrezione assoluta ma nessuno ne parla, non fanno notizia.

La morte di un anziano non viene nemmeno considerata come reazione avversa ma come fatto naturale; nessun parente denuncia il caso alla procura, nessun giornale manda un inviato ad occuparsene. Il caso non sussiste.

Anzi, il commento comune utilizzato per commentare queste uscite di scena assomiglia ad una frase di circostanza…”Poveretto, e pensare che aveva fatto in tempo anche a vaccinarsi.”

Non si muore di solo Covid o di immunoprofilassi.

Nessuno ne ha parlato tranne il ministro britannico Hancock che ha reso pubblici e spiegato, dati alla mano, i 227 decessi avvenuti dopo, e non a causa, delle somministrazioni di vaccino con acqua santa Pfizer e i 275 avvenuti dopo le somministrazioni del killer Astrazeneca. Non ha creato allarmismo dando spiegazioni logiche; gli infarti, le trombosi e le malattie cardiache provocavano, provocano e provocheranno tristi perdite, di egual misura, indipendentemente dal diavolo, dall’ acqua santa o dal Covid.

I media, non sempre oggettivamente utili ed esplicativi, hanno cavalcato lo scoop della “morte giovane” che fa notizia, provoca sempre sconcerto, paura e panico.

Panico che resterà anche dopo il probabile via libera dell’ EMA , il presunto colpevole verrà scagionato ma non convincerà ,nell’ immediato, gli inseriti nelle liste del vaccino Astrazenica a recarsi ai punti di profilassi.

Si può già scommette su molte defezioni, su decine di cancellazioni , magari nell’ attesa dell’ arrivo di Johnson & Johson che ha comunque un nome più rassicurante rispetto a quello da militare turco del prodotto anglo-svedese

E intanto il piano vaccinale rallenta, i contagi non scendono e non scenderanno drasticamente prima di Pasqua, come ci si auspicava, il bollettino dei morti continuerà a segnalare la scomparsa di centinaia di persone senza nome, le rianimazioni supereranno il 30% di presenze Covid.

Basta un attimo , una foto, l’ inflessione dubitativa nella voce di un giornalista per attivare il meccanismo della paura, dell’ incertezza, della revoca di fiducia, a scapito di tutta la comunità.

Per chiarezza, sarebbe utile considerare che il diavolo Astrazenica ha un costo di 1,78 € a dose, l’ acquasanta Pfizer di 12€, il rassicurante Jhonson & Jhonson è venduto ora a 8,50 dollari.

Il vaccino più economico, prodotto dalla meno nota delle aziende farmaceutiche, è anche un killer , un attivatore di trombi sfuggito ai trials clinici e alla rigida lentezza dell’ EMA?

O, non sarà forse, in un mondo che vive ancora di finanza ed economia, un prodotto scomodo , da sconsigliare all’ utenza a vantaggio di altri ?

Non sempre avremo risposte alle domande, ma è sempre bene porsele.

Intanto tra diavolo acquasanta e nell’ attesa di Johnson e Johnson, che non è una mono dose di baby shampoo, per l’ ennesima volta la guerra al Virus perde tempo mentre il Virus vince l’ ennesima battaglia a tavolino e procede, con tutta calma, il suo processo di cambiamenti non sequenziati.

Presagio esatto fu dunque il corto di Tornatore realizzato per incentivare la campagna vaccinale italiana. Nel suo dimenticabile spot ,”La stanza degli abbracci “, la giovane protagonista continuava a ripetere: “Ho dubbi.”

Il funesto spot funesto è stato, fortunatamente, sospeso ma i dubbi sono arrivati e hanno fatto danno.

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LA SANITA’ ITALIANA SALVA TUTTI (ECCETTO SE STESSA)

Il Servizio sanitario nazionale : pubblico ed universale… Ma per quanto ?

di Cristina Battioni

Questa è la storia vera di “E” e di tutti i sans papiers emersi, senza salvagente, dalle onde di una pandemia senza passaporto , dei tanti naufraghi del lavoro sommerso tratti in salvo dalle scialuppe del Servizio sanitario nazionale che, nel frattempo, cola a picco.

Mentre il Titanic affondava l’ orchestra continuava a suonare; mentre gli ospedali vengono depredati ed affondati da tagli e contagi, i medici continuano a curare.

“E” ha 53 anni ma è una donna senza età, assomiglia a una matrioska , la terza di tre sorelle , il seme nascosto. Ha un volto paffuto e le guance rosa, un corpo piccolo e compatto, un approccio gentile che manifesta ripetendo sempre la prima frase in italiano che ha imparato: ” Grazie, mia cara/o”; è il suo slogan, anche quando non c’è nessun motivo di ringraziare.

Ha lavorato in Russia fino al giorno in cui è diventata per la Russia una colf troppo anziana, non sufficientemente atletica, non sufficientemente tecnologica e nemmeno abbastanza forte. Così è tornata in Moldavia con la sua insufficienza anagrafica e nessuna voglia di ripartire. Ad attenderla non ha trovato una famiglia festante ma i debiti non ancora estinti, una casa da sistemare e un libretto di risparmio lasciato, precocemente, in eredità ai figli.

Per sopravvivere è entrata nel gioco delle sostituzioni. Ogni giorno a Parma, come in molte città italiane, arrivano e partono decine di donne dell’ Est ; per una che torna a casa c’è né una che arriva a prendere il suo posto a tempo determinato; due, tre mesi al massimo. “E” è rientrata in Italia a giugno, nel momento in cui tutto sembrava ripartire verso la normalità , ma lei non è ripartita.

Terminata la sostituzione estiva ha continuato a rimpiazzare colleghe che si ammalavano o non riuscivano a tornare in Italia, nemmeno imbarcandosi su autarchici pulmini allenati ad eludere controlli e frontiere con estenuanti percorsi alternativi, mescolando ed accatastando persone e merci.

Come tutte le “sostitute” che restano è diventata una delle 200.000 invisibili , senza permesso di soggiorno e senza contratto di lavoro. Il gioco sembrava ormai collaudato , abituale, scontato dopo anni di routine.

Collaudato e abituale fino al 26 febbraio quando il Covid bussa alle porte del suo corpo; qualche linea di febbre, qualche colpo di tosse e le ossa stanche; ma per una matrioska sono dettagli, è abituata a lavorare con la febbre e la spossatezza di un passato ingombrante sulle spalle.

Lei non si ferma e non si lamenta perché fermarsi vuol dire non guadagnare, non guadagnare significa non poter pagare i debiti o una stanza in affitto, non sopravvivere.

Non dice niente a nessuno, comincia a fare come le altre, si fa di Tachipirina e antibiotici a largo spettro e medicinali di fortuna, ereditati o prestati ; minimizza con le sorelle , con le coinquiline, sperando che tutto passi, come una banale influenza.

“E” è una delle migliaia di badanti che la pandemia ha colpito, prima economicamente, poi anche fisicamente. I dati pubblicati da Assindatcolf dimostrano come la morte di migliaia di anziani ed il peggioramento delle condizioni economiche abbiano costretto 2.400 famiglie italiane a licenziare il 30% delle persone assunte a tutela dei loro cari.

Le previsioni per l’ anno corrente stimano un 41,7% di licenziamenti degli oltre 865.000 collaboratori domestici assunti e regolarizzati. Un mondo di care givers composto, quasi esclusivamente, da donne straniere. Alcune sono tornate a casa; altre, pur di lavorare, hanno accettato turni h/24 per evitare contatti con il mondo esterno e non diventare potenziali veicoli di contagio; molte sono diventate collaboratrici delle pulizie domestiche saltuarie, dove e quando capita, sempre e comunque in nero.

” E” capisce di essere stata contagiata ma , essendo un fantasma, si nasconde; non ha un medico, non ha una residenza ufficiale ed è assolutamente certa di non avere nessun diritto.

Decide si fermarsi e sparire tra le coperte del suo letto. Lascia i lavoretti di pulizia alle sostitute che giustificano la sua assenza inventando la solita scusa della partenza improvvisa per gravi motivi famigliari.

Il 6 marzo, dopo nove giorni di latitanza febbricitante, la paura di essere un fantasma clandestino lascia il posto, per un attimo, all’ istinto di sopravvivenza. Qualcuno chiama il 118 e, finalmente, un’ ambulanza la trasporta al Pronto Soccorso . E’ sola, come tutti gli 87 pazienti in attesa di diagnosi, non riesce a spiegarsi e a comprendere i termini tecnici di una lingua che non le appartiene.

Ha paura, paura dei suoi polmoni che la stanno tradendo ma, soprattutto, ha paura di essere messa alla porta dopo essere stata segnalata alle autorità, come accadrebbe nel suo paese.

Dal suo cellulare chiede aiuto alle matrioske maggiori e regolari ma nessuno può raggiungerla e nessuno sa, esattamente, come aiutarla.

La aiuta il Servizio sanitario pubblico, dove il significato di “pubblico” viene interpretato ed agito nel rispetto assoluto delle intenzioni di chi lo ha concepito per dar vita ad un sistema di cure aperto a tutti, a tutta la comunità intesa come totalità sociale.

Benché sembri un’ utopia è una realtà italiana che mette al sicuro anche “E” nella sua inconsapevolezza, lei è una sans papiers ma, al suo fianco, i medici, i radiologi, le infermiere sono tutti “sans frontieres”.

Forse al triage l’ hanno informata di essere protetta da un codice regionale STP (straniero temporaneamente presente) ma nessuno in un Pronto Soccorso stravolto dall’ emergenza virale ha il tempo di spiegare o tradurre con calma, tutti hanno solo il tempo di fare, tamponare, salvare.

Dal momento del suo accesso “E” non è più un ospite indesiderata ma una paziente della AUSL regionale che assicura il diritto di cura ai cittadini extra-Ue, anche se irregolarmente presenti sul territorio nazionale.

Nel primo pomeriggio è già stata sottoposta a tac e ad un primo tampone, le hanno richiesto solo i suoi dati anagrafici e fatto firmare un’ autocertificazione di indigenza che le permetterà di essere curata, senza aggiungere debiti ai debiti che l’ hanno portata qui.

Alle 22 con il referto del del secondo tampone, che conferma la sua positività, arrivano anche le spiegazioni del medico responsabile che si appresta ad uscire, finalmente, per il cambio turno. Le espone la sua diagnosi e la tranquillizza sottolineando che non deve tremare o scappare poiché nessuno la segnalerà alla polizia, non avendo commesso o subito alcun reato ;usa parole semplici e concrete : “Lei è solo l’ ennesima vittima di un Covid trascurato, che non distingue tra regolari e irregolari “.

Poche parole non guariscono ma la fanno rinascere. Nella fatica del respiro riesce ad essere felice, a percepirsi come un essere umano privilegiato, forse per la prima volta nella sua vita. Non è sola, sarà curata, avrà i farmaci e le dosi corrette e, per sei mesi, verrà seguita ed aiutata nel suo percorso di auspicabile guarigione.

La sua voce gracchia nel telefono della sorella e, indipendentemente dalle parole che pronuncia faticosamente, si percepisce solo una gratitudine stupefatta ed una gioia che contagia tutti i presenti, anche me.

Dopo tanto tempo mi sento orgogliosa di appartenere ad un’ Italia piena di errori, scorrettezze, negligenze, furbetti e corrotti ma, ciononostante, capace di realizzare piccoli miracoli.

Ma per quanto ancora?

La piccola matrioska è stata salvata ma la Sanità italiana che l’ ha accolta no, viene lasciata sola e maltrattata , talvolta accusata dai medesimi che l’ hanno depredata negli ultimi dieci anni.

Tra XIII e XVIII legislatura ben 11 governi le hanno sistematicamente sottratto 37 miliardi di euro; tutti i governi, in rapida successione, hanno attinto alla spesa sanitaria per esigenze di finanza pubblica, sgretolando progressivamente la più grande opera mai realizzata in Italia.

Nessuno si è opposto, nessuno ha invaso le piazze sventolando camici al posto di sardine, tutti hanno fatto finta di non esserci, di non vedere o, peggio, hanno tentato di dissimulare criticando una “malasanità” che, pur essendo tale in alcune realtà del paese , è stata deformata da interessi e disinteresse, da connivenze e convenienze politiche o personali.

L’ emergenza Covid ha solo speronato una nave abbandonata e indebolita da vecchie falle ; l’ assenza di piani pandemici, la carenza di materiali e personale specializzato non sono una novità ,la affondavano prima dell’ ultimo squarcio causato da un iceberg virale.

La “malapolitica” , l’ assenza di fondi, di investimenti in ricerca , di preparazione e motivazione del personale medico e paramedico stanno affondando l’ ammiraglia della flotta del nostro Stato sociale; finite le scialuppe e le zattere di salvataggio, gettato a mare il patrimonio professionale ed umano ancora a bordo, quale orchestra di primari, medici ed infermieri continuerà a suonare e a salvare sul ponte di una Sanità pubblica che affonda?

Temo nessuno.

Senza un’ immediato ed energico supporto economico e progettuale, non suoneranno più nemmeno le sirene delle ambulanze.https://youtube.com/watch?v=l_k3e1Zft-4&feature=share

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LA STAGIONE DELLE VARIANTI

Fioriscono varianti, sfioriscono le viole”

di Cristina Battioni

Questa volta lo Stop non viene da un DPC emanato a tarda notte ma da un Decreto Legge con tutti i crismi richiesti da un necessario fermo immagine nazionale.

Da domani la Padania si ferma davanti al cartellino rosso governativo che rimette in stand by il cosiddetto “motore produttivo” del Paese.

Se esistesse una cartina al tornasole sensibile alle particelle atmosferiche si colorerebbe di rosso, il rosso della combustione del gas metano degli allevamenti intensivi, il rosso dei semafori che non fermeranno migliaia di camion, camioncini, trasportatori, corrieri che la percorrono in lungo e in largo ogni giorno, il rosso dello stop agli incroci pericolosi.

Forse sarebbe stato più adatto il viola della malasorte e del lutto, il viola della rabbia di persone ed attività che sfioriscono precocemente, come le viole.

Mi concedo l’ ultima passeggiata oltre il perimetro del mio domicilio, mi proteggo con la mascherina, lascio che una bolla di sospensione e distanziamento mi protegga dallo smarrimento ; vado e vedo. Percorro i viali verso sera, la foschia impedisce all’ ultima giornata che anticipa un nuovo evento “E” di essere luminosa.

Chissà se è solo foschia o è una patina di batteri, gas, virus mutanti che come un cellofan ci mette sottovuoto tutti , in atmosfera modificata.

C’e traffico, gente che si muove , formiche che cercano di ripercorrere i loro schemi secolari ma accelerando nell’ ansia, si confondono, vanno a sbattere, fanno provviste come prima dell’ arrivo di un uragano. Donne in attesa davanti ai saloni di parrucchieri cinesi, aperti la domenica e presi d’ assalto , perché non si sa quanto sarà lunga la ricrescita da affrontare.

Non ci faccio caso, il nuovo lockdown non altera la mia chiusura totale che si perpetua da anni, per me rientra nella normalità il fare solo le cose strettamente necessarie alla sopravvivenza.

Comprendo il disagio delle donne che da domani dovranno essere madri, professoresse, lavoratrici, cuoche, infermiere, carceriere e carcerate in pochi metri quadrati.

Immagino la serranda scoraggiata che abbasseranno i piccoli negozi dopo aver apparecchiato , invano, le vetrine a festa sperando di vendere qualche articolo per la bella stagione.

Capisco soprattutto la stanchezza che scema in disinteresse, o peggio, in rabbia quando si associa allo spettro della povertà.

La rabbia può trascendere in violenza o in autolesionismo, la noia in depressione, la depressione in patologia.

Ma non c’e’ tempo. Nè per la rabbia, né per la depressione, né per la patologia.

Eppure , nessuno neanche nel nuovo esecutivo ha avuto il coraggio di accollarsi l’ onere di una semplice frase esplicativa : “Dovete stare in casa, a 10, 20, 30, 50 anni, ad ogni età, dovete stare in casa e non farci entrare nessuno, dovete evitare i contatti il più possibile se non volete non poter assistere neanche al vostro vaccino, figuriamoci ad un eventuale ricovero”.

Perché lo stato sociale esiste ma può non reggere ad ulteriori pressioni e la sanità pubblica è in overbooking.

Il nemico è molto più scaltro di noi, ci anticipa, anticipa e gabba anche i tamponi che non lo rilevano più’, si appresta a precedere i vaccini che, già scarsi, rischiano di essere anche inutili.

Questo CV 19 è il nemico mortale della socialità, degli aperitivi, delle cene in casa, delle chiacchiere a vuoto, delle lezioni di fitness, degli stadi piene e delle messe la domenica, di molte cose che riempivano il nostro tempo libero o la nostra la noia.

Si alimenta di shopping, gite ai centri commerciali, week end sui lungomare, struscii nelle vie del centro, maratone, concerti, eventi. L’ unico elemento che teme e’ la spirale della silenzio, l’ isolamento.

Ma ahimè lo teme il virus ma anche le sue potenziali vittime , come se la solitudine fosse un batterio, una minaccia, un pericolo. Lo è in effetti , o lo può diventare quando si è isolati dall’ esterno ma imprigionati a condividere la propria aria con altri .

Ogni versione di affetto contemporanea non è aggiornata a sostenere la coabitazione continua .

Il cambio radicale di abitudini e comportamenti è l’ unica mossa che può fare scacco matto ad un ospite così virulento ma è anche l’ unica pedina che fatichiamo a spostare sulla nostra scacchiera .

Arrivo a Piazza della Vittoria; stasera sembra scossa dalla paura di sentir suonare le sirene dei bombardamenti in arrivo, si muove, si agita, senza una ragione. I bar erano già vuoti, aperti solo per l’ asporto fino alle 18, i negozi in saldo perenne alternavano saracinesca a mezz’ asta o chiuse. Perfino tutto ciò che era già fermo anela ad un movimento scomposto.

Gli uffici essenziali resteranno aperti, molti lavoreranno in smart working, la vita essenziale continuerà con le dovute precauzioni ma, stasera, nell’ ansia palpabile del cartellino rosso, tutti devono asportare qualcosa, l’ ultima boccata d’ aria, l’ ultimo pacchetto di sigarette, l’ ultima scorta di Tachipirina dalla farmacia di turno. Solo gli uffici sono chiusi perché sanno di riaprire, seppur a regime ridotto, domani.

Eppure ce l’ avevano detto, senza allarmismi, avevano cercato di spiegarci l’ evoluzione naturale di un virus che a noi sembra un artificio.

Non e’ un ordigno innescato da chissà chi e chissà dove, è vivo, ci osserva, ci entra dentro e si abitua , lui sì, alla sua nuova casa, senza temere alcuna minaccia di sfratto.

Mi avvicino all’ edifico della mia Scala B con circospezione, abbasso lo sguardo per non incrociarne altri, raggiungo il corridoio ceco e salgo sull ascensore che mi risucchia veloce e mi porta sù, verso il mio cubo al quinto piano.

E’ tutto in ordine, pulito e rinfrescato; il quadro delle peonie colpito da un tramonto miserevole cangia dal rosa al viola.

Dall’ affaccio del balcone la linea dell’ orizzonte è sfuocata, non ci sono i colori, mancano il giallo, il rosso e il blu spariti in una luce opaca. Mescolando il blu e il rosso si ottiene il viola, miscelando il giallo ed il verde lo si annulla.

I complementari si annullano davanti a me, nella Zona Grigia di confine.

Mi siedo un istante accarezzando l’ immenso divano , nel punto esatto dove si sedeva mia madre, forse è solo una mia allucinazione, ma ne avverto la presenza.

Sono quasi contenta che non debba respirare questo tempo inquinato e angosciante , penso a lei, ai nostri lockdown che ignoravano le stagioni, alla canzone che ancora cantiamo insieme, almeno qui, poco intonante e confondendo le note ma assenze e presenze riescono sempre, sottovoce, ad accordarsi.https://youtube.com/watch?v=K5OWyBUvlZc&feature=share

Mentre canticchiamo mi sorprende la porta dell’ ascensore spalancata, non avevo ancora espresso il desiderio di scendere…non dovrebbe essere al piano.

Mi volto di scatto e vedo solo un qualcosa di verde a terra, sembra muschio.

Solo salendo a bordo per raccoglierlo mi accorgo che e’ un mazzetto di viole mammole trattenuto da un elastico per capelli. Devono provenire dal piano T, probabilmente la Scala B ha chiesto a Seppia di mandarli sù avvertendo la mia rassegnata tristezza . Graziose e fragili; le infilo in un bicchiere d’ acqua e le libero dall’ elastico che infilo al polso per restituirlo.

Ho il rosso del Decreto ministeriale, ho il verde e il viola, mi manca il giallo per ricomporre il cerchio dei colori ed eliminare il grigio.

“T”, il giallo può essere al piano “T”, devo scendere a cercarlo. Mi infilo nell’ ascensore e in un istante di vertigine sono davanti al piccolo giardino, l’ Edicola Sospesa sempre al centro , ma sorprendentemente sopraffatta dai cespugli di fostizie in fiore . I cespugli sono esplosi, la ricoprono su ogni lato, lasciando liberi solo la finestrella di Seppia ed il tetto spiovente del chiosco, in lamiera verde.

Il cerchio di Itten è completo; il giallo dei fiori e il verde del chiosco non annullano il colore vivace delle viole spontanee, ogni cosa coesiste e si illumina. Il piano T è zona pulita e la natura, indifferente ai lockdown e ai decreti, esplode seguendo il suo indiscutibile istinto.

Seppia non e’ al suo posto nel chiosco, la sua assenza mi destabilizza ; cercandolo con lo sguardo osservo per la prima volta i balconcini cubici ed incolonnati della Scala B. Se mi allontano fino alla parete estrema del giardino riesco a vederli tutti, anche il mio con il costume blu legato alla ringhiera in ferro. Gli atri sono esattamente uguali, spogli, eccetto il balcone del secondo piano.

C’è un lenzuolo bianco appeso, un lenzuolo singolo, sembra una bandiera bianca.

Dietro la bandiera indovino la scia fumosa di una barretta d’ incenso. L’ aria porta l’ odore melenso fino a me. Intravvedo solo la figura di una ragazza immobile sulla soglia della porta finestra. Forse mi sta guardando.

Nella luce bassa distinguo la sagoma scura di una donna minuta, fianchi strettissimi e spalle larghe. I capelli mossi e ribelli sembrano una piccola criniera. Abbasso lo sguardo, fingo di non averla vista, qui la discrezione è sopravvivenza, simulo disattenzione camminando rasente alla barriera gialla dei cespugli intorno all edicola, fino al davanzale di Seppia.

Ametista

Non c’e’.

Trovo al suo posto trovo un foglio appiccicato al vetro dall’ interno :”Torno adesso”.

Non era mai successo, era sempre qui, intento a leggere o a scrivere i suoi pensieri. Non so che fare ma mi fido del cartello; “Adesso” qui vuol dire ” torno quando c’ e’ bisogno di me”.

E infatti Seppia spunta da un cespuglio nell’ inedito ruolo di giardiniere; indossa un salopette di jeans, una felpa grigia , due guanti esagerati da giardinaggio e stringe in una mano delle cesoie per potatura.

Ha perso la staticità fotogenica da mezzobusto, ora lo vedo tutto intero, dinoccolato e scomposto tra ciuffi di fiori gialli mentre particelle multicolori si nascondono tra i capelli arruffati.

Il Prof. fuori dalla sua edicola sembra un ragazzino che si rotola nei prati con dei coriandoli tra i capelli. Il passato e il presente si sovrappongono sempre nel tempo analogico, giocano fra loro.

Lui non ci fa caso, si sfila i guantoni , si scrolla qualche insetto dai capelli e mi saluta “Salve Kami, scusi stavo cercando di liberare almeno la porta laterale , i cespugli stanotte si sono moltiplicati e mi hanno ostruito l’ unico accesso , ho fatto un po’ di dècoupage .” Si giustica e ride come un bambino divertito, scoprendo i 32 denti bianchi e perfetti.

Nascondo il mio sorriso eccessivo e lo scuso “Lei sa fare proprio tutto, ma al di la’ della scomodità devo dire che l’ edicola circondata dal giallo è perfetta, perfetta per un quadro post- impressionista. ”

Quando mi risponde è gia rientrato in postazione e affacciato al davanzale a favore di regia , “No, no, io so solo leggere e scrivere, sono obbligato ad eseguire lavori manuali quando la natura prende il sopravvento e, come vede, ha già preso il sopravvento. Qui le stagioni sono puntuali, non come là fuori.”

Là fuori non c’ è più niente di naturale e puntuale, vorrei rispondergli, ma suppongo sia informato, gli restituisco invece l’ elastico che legava il mio mazzolino.

“Grazie per il bouquet di viole, suppongo le fosse avanzato dal suo dècoupage, delizioso, grazie davvero”.

Seppia scuote la testa , illumina gli occhi scuri che leggono i pensieri altrui e chiarisce, “No, mia cara, non li ho inviati io, li ha inviati Ametista, io li ho solo messi sull ascensore per lei. E’ molto solitaria e non scende mai se c’e’ qualcuno ma deve averla sentita cantare , le ha raccolte e mi ha pregato di inviarle alle voci che sentiva. L’ elastico è suo, ma lo lasci pure a me, lo metto insieme al suo giornale sospeso che non ha ritirato”.

Sbircio tra i rametti e vedo il secondo ripiano in cui Seppia depone l’ elastico su una rivista a colori :“Journal of Ethnopharmacology”, ritengo sia rara e molto più costosa dei nostri quotidiani sospesi.

Ametista, secondo ripiano e secondo piano , quindi ha un nome la sagoma femminile nascosta da un filo di fumo e da una bandiera bianca stesa al sole.

Vorrei poter ricambiare in qualche modo il suo gesto gentile ma anche la sua ombra è sparita, rimane solo l’ odore di bruciato e un lenzuolo candido che riflette i colori del giardino.

Chiedo a Seppia un foglio di carta e una penna con la stessa naturalezza con cui avrei chiesto lo zucchero ad un vicino di casa. Mi offre un intero block notes e una matita, precisando ” Uso solo le mine, sperando di non lasciare traccia duratura di ciò che scrivo o penso, detesto rileggermi o essere riletto”.

Con una matita compongo due righe provvisorie per Ametista : ” Grazie, ovunque protegga la grazia nel suo cuore, è cosa rara. Con affetto, Kami”.

Affido il bigliettino al guardiano del chiosco certa che, se lo riterrà opportuno, lo consegnerà con l’ elastico e il periodo o lascerà che la traccia a matita si cancelli da sola.

“Si, certo glielo conservo, vede lo metto qui con la sua rivista sospesa”. Quindi Ametista non ha come tutti noi un giornale sospeso ma un periodico, ed e’ l’ unica, fino ad ora, a cui la Scala abbia dato un nome senza ambivalenze.

Cercando di non fare troppe domande e di non violare la solitudine dell’ inquilina del secondo piano , mi permetto solo una riflessione parlata, “Deve essere una persona speciale, il nome è speciale ed il suo scaffale è l’ unico con una rivista, scientifica e in inglese.”

Seppia non risponde, guarda verso il secondo piano e racconta, narra .

“Gli inquilini del secondo piano sono sempre speciali, sono solo di passaggio, non sono sospesi, sono attaccati alla vita con le radici e per non essere sradicati vengono qui, il tempo sufficiente per riposare e non mostrare agli altri i segni di una malattia o di una cura, poi, appena riescono a sorridere e a recuperare le forze tornano alla loro vita fuori.”

Quindi gli inquilini del secondo piano sono qui per evitare che gli altri cadano. Trascorrono qui il tempo di una quarantena sanitaria o di una cura per nasconderla all’ attenzione di chi li circonda. Non temono più’ la caduta ma desiderano la salita , qualunque essa sia, salvano chi amano dalla vertigine.

” Ora ha capito perché si chiama solo Ametista?”, mi domanda Seppia con un tono quasi solenne.

“Si, ritengo di sì”, gli rispondo senza allegria, ” l’ ametista è la pietra della spiritualità, dell’ unione degli opposti, il suo viola purifica i pensieri, nasce dall’ unione tra il rosso dell amore e il blu della saggezza.”

Seppia non risponde ma continua a narrare, ” E’ il colore della metamorfosi, della magia che noi non comprendiamo ma Ametista si, la sente e la studia; per questo necessita di un giornale diverso, senza scadenza quotidiana , senza rischio di reso e che , al contrario, va prenotato e atteso.”

Ecco perché ci chiudono a zone rosse o arancioni fuori, perché il viola non lo saprebbero gestire, eppure sarebbe il colore più attinente alla realtà che cambia continuamente. Invece di subirla potremmo cominciare ad interpretarla, a sentirla anziché tentare di imbrogliarla.

Ma è tutto troppo complicato e nel digitale che scorre non c’e’ molto tempo per capire, solo per digerire.

Forse la nuova variante del Virus, quella che ancora non sequenziamo , è viola, cambia mentre ci invade, prende qualcosa di noi senza restituirlo. Ci fa sentire tutti uguali mentre ci differenzia, impara a conoscerci più di quanto non sappiamo fare noi e usa i nostri punti deboli per propagarsi.

Usa la nostra paura della solitudine per migliorarsi e contemporaneamente per metterci di fronte al nostro spettro, l’ essere soli.

Seppia mi legge i sottotitoli, li interpreta , li corregge e me li restituisce.

” Siamo tutti soli, lo siamo da prima dei virus e delle varianti, cerchiamo di coordinarci , di fare gruppo per non pensarci, ma siamo soli prima o poi. Può essere una condizione insopportabile o un opportunità, dipende. Talvolta è solo una condizione con cui dobbiamo scendere a patti, niente di più”.

Mi sta suggerendo che non si muore di solo Covid?“, oso domandare. ” Si muore e basta, si guasta un pezzo del meccanismo imperfetto, si interrompe un circuito, si spezza un giunto e … l’ eternità svanisce.”

Siamo molto meno di ciò che pensiamo di essere, soli o accompagnati, pre e post Sars.

Siamo tutte varianti di un essere imperfetto, migliori, peggiori, resistenti o fragili, solo varianti non sequenziate , tutti diversi e perciò soli in un mondo che ci avvicina per similitudini esterne.

Mentre rifletto Seppia mi porge il mio Giornale sospeso e si rimette i guantoni da giardinaggio.

“Si ricordi, se, e quando vuole, scriva B sul palmo della mano, arriverà qui senza passare per strade e corridoi e senza dover indossare la mascherina. Ma la prego, ricordi che le sospensioni non salvano, offrono solo una visuale diversa, proteggono dal caos o dall’ ingestibile del quotidiano ma non dalle variabili, né virali né personali. Faccia attenzione e abbia cura di se e non solo della grazia nel suo cuore.”

Chino la testa per ringraziarlo e salutarlo, ogni parola sarebbe superflua e ho parlato più’ del dovuto e più’ di quanto io sia abituata a fare.

Guardo il balcone del secondo piano, Ametista ha ritirato il lenzuolo bianco, non si è arresa.

Posso andare anche’ io , con il mio “Domani” di ieri sotto braccio e il titolo a tutta pagina ” Arriva la stretta più severa. I numeri peggioreranno ancora” esemplificato da una cartina geografica prevalentemente rosso scuro, Sardegna grigia, per fortuna il Mediterraneo è ancora azzurro.

Domani sta avvenendo, il mio orologio torna a funzionare tra le vie e le auto ,tutti a rincorrere qualcosa che ci ha già superato e che noi crediamo di doppiare sul circuito della zona “quasi” rossa di domani.

Buona adattamento a tutti , sperando di sequenziare una variante positiva di noi stessi.

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“IL DOTTOR STANTE”

“Il cigno nero della Scala B”

di Cristina Battioni

“Stante come abbreviazione di Distante? Scostante?”, gli domando mentre cerco di imparare a leggerle le risposte non dette. “No, ora solo Stante, colui che sta , fermo ai crocevia.”

Tutto ciò che leggo nei suoi occhi stanchi è resa incondizionata, immobilismo esistenziale. Una stasi profondamente antitetica al suo muoversi veloce nel mondo esterno, al suo passo accelerato da un ufficio all’ altro con lo sguardo guardingo di un animale in fuga.

Qui, nel rifugio della Scala B, dove ogni sospeso può essere semplicemente ciò che è, lontano dagli sguardi e dai giudizi dei contemporanei, il notaio della Scala A rimane fermo, non sa dove deambulare e , nella paura di sbagliare, semplicemente non fa.

“Stare qui la rasserena, vero?”, mi domanda cercando di abbassarsi di qualche centimetro per non sovrastarmi. “Non so”, gli rispondo, ” io mi sento sempre di passaggio , ovunque. Non so stare”.

Deve aver gradito la risposta , lo deduco dal leggero bagliore dell’ iride e dallo sguardo che lascia trapelare un guizzo istantaneo , ma subito soffocato, di curiosità.

Il fulmineo luccichio degli occhi gli trasfigura il viso, improvvisamente si intravvede l’ uomo che era e, da troppo tempo, ha smesso di essere. Probabilmente non lo ricorda nemmeno lui. Improvvisamente gli anni contati e ricontati si sottraggono, i lineamenti delicati ma severi si ammorbidiscono, i capelli bianchi rivelano residui di un colore decappato.

Al glamour british da notaio affermato si sostituisce una semplicità confortevole ora che ha piegato il trench sotto un braccio e si gode il sole con un maglioncino grigio senza camicia; sembra un cigno che ha perso il suo piumaggio folto ed il suo lago, non certo un professionista di lungo corso.

Nei suoi minuti di anonimato e d’ aria sulla panchina del piano T abbadona la lettura del “Sole 24 ore” , mi invita ad accomodarmi abbattendo un muro di protezione, sempre a debita distanza.

” E lei, come si chiama ora?”, osa domandarmi in uno slancio di vitalità. “Non lo so , Seppia non mi ha mai chiamato per nome, non so dirle quale nome abbia scelto la Scala per me.” “La Scala non sceglie, la riconosce soltanto , per questo lei è qui, perché aveva bisogno di un identità che fuori non le riconoscono, o che le è interdetta”. Mentre cerca di spiegarmi me stessa con insolita loquacità, comincia a muovere le mani , lunghe e forti; gesticola.

Il Notaio non gesticola mai nel suo habitat, porge solo la penna per firmare e legge velocemente gli atti, un po’ qua e un po’ là, mentre nessuno lo ascolta o capisce. Quest’ uomo nuovo e antico disegna parole con le mani e picchietta il piede palmato e lungo, da cigno, che vorrebbe spostare acqua e navigare.

” Comunque io so che lei si chiama Kami, ho visto la targhetta nella scansia di Seppia dove ripone i giornali sospesi.”

“Kami come Kamikaze?!”.

Prima di rispondermi agita il lungo braccio e con la mano sembra raccogliere porzioni d’ aria, “O forse come il Vento divino del Giappone…o forse entrambi.”

Entrambi, il mio essere è sospeso tra questi due nomi; Seppia sa proprio leggere le persone senza sfogliarle. Mi sorprende però la sua scelta di conservare “Il Sole 24 ore” come giornale sospeso per un professionista in anonimato. E’ l’ unico quotidiano sostenuto da una solida base di abbonati fedeli ; commercialisti, avvocati , finanzieri, burocrati, forse l’ unico che non ha resi da macero.

Tergiverso giocherellando con un filo d’ erba, poi mi avventuro in una domanda, pentendomene contemporaneamente, “Mi scusi, ma lei legge solo quello?” gli chiedo indicando il giornale.

“No, lo leggo fuori , a casa o in ufficio, dentro ci nascondo il mio Giornale sospeso, Il Sole mi serve come contenitore anonimo”. Lo apre e mi mostra il contenuto misterioso.

“Ma è “Baudelaire!”, uno dei libri di poesia pubblicati da Repubblica e allegati all edizione domenicale…sono sorpresa e lo lascio trapelare.

Poche cose svelate mi sorprendono, quasi sempre mi annoiano.

Tutti abbiamo due vite, diceva qualcuno, non ricordo chi, una vissuta e una sognata. Io non ci credo, tutti abbiamo due vite, una prima e una dopo, non sono parallele ma solo sequenze temporali.

Ad un certo punto, in molte esistenze accade qualcosa, l'” If”, il crocevia, la caduta , un cortocircuito, qualcosa di imprevisto che ci cambia fisicamente e moralmente.

I più fortunati avvertono solo una vaga nostalgia di quello che erano abituati ad essere ed accettano lo sconosciuto in cui si sono trasformati, alcuni imparano ad amarlo. I più’ “sfortunati” rimangono nel limbo, con infinita fatica incollano i pezzi del vecchio sé, lo trasformano in un estraneo di cui non hanno stima e proseguono fingendo, imitando una noiosa e alienante parodia.

E i sospesi ? Sono nel punto di scelta, possono uscire scommettendo sul cambiamento o rimanere sospesi, con il corpo che simula l’ abitudine e la mente altrove, dissociati ma ancora possibili.

L’ ascensore della Scala B li raccoglie nell’ attimo in cui rischiano di cadere una seconda volta e farsi male o li raccoglie quando si sono già frantumati ma sanabili, plasmabili in qualcosa che contenga il vecchio ma rimbalzi sul nuovo.

La sola cura che offre consiste in un presente dilatato, in una solitudine piena di presenze da selezionare; in un tempo personale in cui elaborare un piano B da giocare nella seconda parte del viaggio, tra falsopiano e discesa. Tutti quelli che ne escono sono diversi anche quando mettono a punto una fotocopia perfetta del prima per ingannare gli altri.

Stante ha scelto la fotocopia e l’ ha realizzata con tale accuratezza da renderla formalmente quasi identica all’ originale. Nessuno nel suo studio se n’ è mai accorto, nessun collega, nessun cliente, nessun figlio, nipote o moglie. Per loro è sempre la stessa persona , grande professionista votato alla carriera, immerso nel lavoro che ama, sempre perfetto, sempre contenuto ed equilibrato, una brava persona immobile che invecchia agendo tutti i ruoli che gli altri gli attribuiscono. Affidabile e immutabile.

Nessuno si è accorto del cigno sigillato dal suo portamento; ha lasciato che il tempo lo imbiancasse per paura di scoprirsi, ed essere, un possibile cigno nero. Ha nascosto a se stesso la possibilità di poter essere un evento raro, imprevedibile ed inaspettato.

Non se lo concede nemmeno qui, in un tempo che non è accessibile agli altri, nemmeno ora con il piumaggio diradato e scolorito. Ha paura di perdere l’ unico equilibrio che conosce, anche se lo imprigiona.

Appena può’ , scende le scale in fretta e svanisce nel suo cubo della Scala B, nessuno se ne accorge, per gli altri è il tempo di una caffè, per la sua mente è un tempo vitale, è il tempo della libertà.

Vicino all’ edicola sospesa le persone, come i libri, si lasciano leggere ed interpretare. Mostrano gli incipit importanti.

Stante si e’ tolto il cappello , molti capelli si sono persi nella prima parte del suo tempo, quelli che restano sono sottili e, appena liberati, sembrano giocare con l’ aria ed il sole. Anche il pallore lascia il posto ad un colorito appena accennato, testimonianza del sangue che riprende a circolare e ad alimentare pensieri nuovi nella dimensione ritrovata di libertà.

Un cigno stropicciato che non può’ volare e non sà più nuotare, ma legge poesie. Siamo esseri meno complicati di quanto ci raccontiamo da soli.

“L’ ha già letto ? Ha trovato la poesia del giorno ?” gli domando con estrema consequenzialità. Mi guarda perplesso…”Non la consideravo la poesia del giorno, ma sì, continuo a leggere questa, a piccoli sorsi”.

Mi mostra pagina 45, “Elevazione” e comincia a leggere sussurrando e sfiorando le parole con le dita, “…Abbandonando le noie e le profonde tristezze che gravano col loro peso sulla grigia esistenza, felice chi può con un colpo d’ ala vigoroso slanciarsi verso campi luminosi e sereni”.

Ascolto senza commentare, il cigno vorrebbe volare anziché stare.

“Sono sufficienti poche parole scelte con estrema cura per raccontarsi, non è vero?” chiedo e dico a me stessa in un istante prezioso di empatia.

“Si, più’ di mille frasi vuote, ma ci vuole tempo per trovarle e, talvolta, è il tempo sbagliato. Allora le tieni dentro, al sicuro, dove chi non le comprende non può, almeno , guastarle”.

Annuisco, io le lascerò’ intatte. Stante torna distante, infila il cappello, nasconde Baudelaire nel Sole 24 ore e lascia il cigno sulla panchina mentre il notaio, suo inseparabile alter ego, torna alla Scala A, alla grigia esistenza, senza nessun fremito d’ ali .https://youtube.com/watch?v=jDrzWcAQOdc&feature=share

Mi avvicino all’ Edicola , Seppia intento a leggere sembra non essersi accorto del breve dialogo tra inquilini, sembra. Picchietto delicatamente con i polpastrelli sul davanzale, come utilizzando il codice Morse. Solleva leggermente il volto senza togliere gli occhiali, mi osserva attraverso gli occhi acuti, improvvisamente scuri e profondi.

” Non le dirò nulla Kami, oggi però non le consegno il suo Giornale sospeso, non c’ era niente ieri che possa essere utile per cambiare l’ oggi, o la sua interpretazione dell’ oggi. Ho la sensazione che, anche là fuori, il tempo , si sia ingolfato, non proceda e finga solo di trascinarsi”.

La sensazione è condivisibile. In questi giorni di nuovo Governo e rinvigorita seconda o terza ondata di pandemia regna un senso di incertezza. Sembriamo un mondo rassegnato e in attesa, tutti semoventi ma stanti.

“Le presto il libro che stavo leggendo mentre lei sbirciava Baudelaire e “altro”, lo tenga con se, potrebbe esserle utile in varie circostanze. E non si preoccupi se un nuovo lockdown le impedirà di tornare qui prossimamente, la Scala saprà venire a prenderla, disegni una B sul palmo della mano, non guardi e non tema la vertigine, la porteremo qui.”

Prendo tra le mani il libro a rendere ” Il cigno nero-Come l’ improbabile governa la nostra vita” di Nassim Taleb. Un saggio filosofico premonitore estremamente attuale ora che l’ improbabile ci governa tutti, consapevoli ed inconsapevoli.

Seppia leggeva le risposte molto prima che io ponessi le domande, capire è spesso una questione di tempismo, non capire e’ spesso una questione di opportunismo. Capire non significa necessariamente fare ma far finta di non capire significa necessariamente stare in apnea, statici, impietriti dalla paura del nostro cambiamento mentre tutto è già cambiato, senza di noi. https://youtu.be/fqi5Avx70FY

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CENTOMILA LACRIME

E’ da un anno che piove…

di Cristina Battioni

E’ da un anno che piove a secco e l’ aria è sporca stasera, una leggera foschia ha velato la giornata e la sfuoca in una sera che sembra anonima .

Questa mattina dalla finestra di un ufficio al terzo piano del Servizio Veterinario si vedeva l’ accesso alla Ausl di via Vasari. Alle otto sembrava di essere nei pressi di un centro commerciale la vigilia di Natale. Decine di auto in coda disciplinate dalla polizia municipale, decine di persone in fila, tutti in attesa di un tampone.

Dopo un anno e un giorno il tempo torna a sovrapporsi. L’ aria non è pulita, miliardi di particelle invisibili si muovono sfuggendo ad un una traiettoria prestabilita, come sempre, ma oggi il caos torna ad avvicinarsi e a lasciarsi percepire.

Ci ritroviamo ad essere funamboli inesperti che barcollano su un filo sempre meno teso con un equilibrio sempre più incerto. Richiuderanno, se la giornata non inverte la rotta velocemente, richiuderanno i giorni con barriere rosso scuro, quasi viola.

L’ ignoranza non è ammessa in stato di guerra, un calo di vigilanza ci ha riportato indietro, senza la capacità di resistenza che solo l’ inizio di un conflitto genera.

Stasera si respira aria sporca e stanca.

Mi sono rifugiata nel mio cubo, quinto piano Scala B. Non era previsto ma temo che il coprifuoco delle 22 verrà anticipato e gli spostamenti ingiustificati interdetti. Ho calcolato con la massima precisione il tempo di percorrenza a piedi dal mio domicilio a Piazza della Vittoria, partendo alle 21 dovrei essere di ritorno prima dell’ ora X.

Volevo vedere il mio rifugio sospeso nel buio quando chiudono gli uffici e l’ edificio grigio ed austero sembra uno spettro nella città’ che si svuota. Piazza Della Vittoria è deserta all’ ora di cena, nessuna luce dalle vetrate, solo i lampioni sul parco immobile e silente.

Ho tolto le scarpe, ho curiosato nella credenza e ho trovato una bottiglia di rum ad aspettarmi affiancata da da una barretta di cacao 90%. Mi sono versata due dita di liquore , ho aperto la porta finestra e mi sono accovacciata sul divano. Non ho voglia di pensare stasera, la Scala lo sapeva. Ho bisogno di scaldarmi dentro e di una doccia calda tutta mia. Niente di più’. Lancio i vestiti a caso, mi concedo il lusso del disordine e mi rifugio nella cabina del bagno Piero che, inaspettatamente, ha perso l’ odore acre di vernice fresca, sostituito da un accogliente profumo di talco.

Sono un pesce che non può nuotare ma respira dalle branchie tra conchiglie del Tirreno incollate alle piastrelle. La zona doccia non è separata , forma un tutt’ uno con il resto della cabina; in pochi minuti emergo da un universo di vapore e sale.

Indosso un vecchio accappatoio di mio padre con cappuccio, mi avvolge la testa ed il viso, mi copre le mani e ogni centimetro di pelle, tranne i piedi che attraggono qualche granello di sabbia. La città ora mi sembra un entità lontana nello spazio e nel tempo, dal balcone si intravedono le sue luci come lampare nella foschia.

Galleggio nel presente, mi riconosco un puntino inerme nel tutto del tempo e dello spazio. Non essere niente è un sollievo indescrivibile.

Sta rinfrescando, è ancora inverno, mi allungo per chiudere il balcone ma non riesco, mi alzo come un mollusco e trascino le ante del balcone verso di me. Mi sorprende una musica appena percepibile, il suono di un sax… “Smoke gets in your eyes..”,i Platters, vinile originale del 1959.

https://youtube.com/watch?v=H2di83WAOhU&feature=share

E’ tra i dischi che la Scala mi ha fatto trovare qui, è roba “mia”, ma qualcuno la sta’ ascoltando in un altro cubo, a volume basso tanto da non riuscire ad individuarne la provenienza. Ballo da sola abbracciata all’ accappatoio e alla sensazione di un ricordo sfuggente…tre minuti di eterno e torna il silenzio. La misteriosa selezione musicale si interrompe. Solo silenzio, silenzio e poi risate, piene, solitarie, rumorose. Un uomo ride, si interrompe per prendere fiato e ricomincia accordando le corde vocali, sembra dar suono ad un’ espressione spontanea di gioia.

Chi ride qui questa sera? Chi non ha mai potuto ridere altrove, suppongo.

Improvvisamente l’ allegria si smorza, sparisce. Esattamente come la percezione di uno stato di grazia, svanisce prima di permetterci di prenderne coscienza. Ascolto, ascolto il silenzio per trovarci qualcosa e la trovo, o mi trova…sento delle gocce cadere, una dietro l’ altra, in fila indiana.

Ci sono molti sospesi in crisi di astinenza nella Scala stasera, probabilmente ci sono ogni sera. Vorrei inserirmi in questa messagistica di nonsense ma non saprei come.

Non ho strumenti musicali nel mio cubo, ho dimenticato come si ride di gusto senza dover forzare la voce, ho un giradischi e cinque album in vinile ma non saprei quale scegliere. Afferro un libro a caso; Pessoa, “Il tempo e l’ acqua ” , lascio scorrere il pollice sui fogli e chiudo gli occhi. Li apro su “Al di là”…sussurro un verso “Guardo il mare ondeggiare e un leggero timore prende in me il colore di voler avere una cosa migliore di quanto sia vivere…”. Silenzio assordante, nessun rumore , solo il plin …plin delle gocce che si moltiplicano. Forse sta piovendo o qualcuno ha risposto al mio messaggio in codice piangendo, senza violare l’ anonimato.

Il pianto non ha un sesso, un genere, e’ solo umano.

Forse è un suggerimento, forse oggi tutti dovremmo superare la paura e il divieto di accesso al pianto. Trattenere fa male alla salute, è risaputo. Ma le manifestazioni spontanee sono un rischio, creano dipendenza. Lo sappiamo e lo evitiamo, per non piangere sempre non piangiamo mai. Ma questa non può che essere pioggia improvvisa di quasi primavera, fredda ma delicata.

Pioggia strana in un aria infetta. Chissà se Seppia è ancora all’ edicola sospesa; con il buio e questo presagio di temporale non ci sarà’ nessuno al piano T. Riemergo dall’ accappatoio grigio extra large , verso due dita di rum in un bicchiere e infilo in tasca 3 euro, scivolo nell’ ascensore capsula e premo “T”.

Il giardino non è buio , ci sono piccole luci appese ai rami del platano, sembrano lucciole statiche. Al centro, il chiosco di Seppia , illuminato da una lampada a petrolio; l’ Edicola sospesa mi orienta come un minuscolo faro sfuocato circondato dalle lampare di pescatori di pianura sospesi.

La sagoma del guardiano del faro è appena tratteggiata, forse sta scrivendo dietro il suo davanzale. Sotto i piedi il prato è bagnato ma non freddo, lo percepisco come un tappeto di fili di cotone inumiditi dalla rugiada. Mi avvicino e busso con le dita alla finestrella . Seppia alza il volto senza scomporsi , avvicina la lampada al viso, solleva gli occhiali da scrittura notturna e mi sorride, come sempre.

“Salve, ma cosa fa qui a questo’ ora? Non ci ha mai fatto visita dopo il tramonto.”

Non saprei cosa rispondere, gli porgo il bicchiere di rum e i tre euro. Risponde lui alla domanda con una risposta migliore della mia . “Brutta giornata là fuori, suppongo, tra il riso e il pianto non si sà mai cosa scegliere, non è vero ?”. “Gia’”, sussurro, “non si sa mai.”

“Non si preoccupi, accade a molti qui”. Mentre mi parla inclina leggermente la testa verso destra. La panchina è occupata da una donna, ha un ombrello minuscolo ed inutile per proteggersi, il collo lungo di un airone proteso in alto, lo sguardo perso oltre le luci, oltre i rami, un libro tra le mani.

Seppia è sparito alla ricerca del mio Giornale sospeso mentre rimango immobile, incuriosita ed incantata da una figura eterea che sembra aver attraversato molte vite; il collo lungo e sottile continua con una curva elegante nel profilo perfetto di un viso antico , i lineamenti sono appena delineati da un pastello rosa cipria e circondati con grazia da capelli chiari, forse bianchi, raccolti in una treccia perfetta. L’ airone cinerino con il suo inutile ombrellino non mi guarda, ignora tutto e fissa il cielo, chissà cosa cerca.

Seppia riappare, respira il rum e, prima di porgermi il giornale, mi dona un piccolo ombrello tascabile. “Era un gadget di una rivista scomparsa, dopo molti maceri hanno smesso di pubblicarla. L’ ho salvato perché un ombrello può sempre servire quando la Signora Nolente piange”.

“Ma allora non è pioggia?! Qui piove quando qualcuno piange?”.

Mi risponde a modo suo, come sempre, “Certo, a volte ci sono così tante lacrime non versate da scatenare un temporale. Purtroppo però il riso non porta il sole, quasi sempre è un lampo seguito da un tuono. E’ la natura umana nei cambi di stagione.”

Il ragionamento sembra addirittura logico e scientifico, come tutto ciò che non subisce le regole dell’ ordinario. Oggi potrebbe avvenire un altro cambio di stagione.

Nolente senza età ha chiuso gli occhi con il collo d’ airone proteso verso le lampare appese ai rami; le sue lacrime bagnano il prato, il chiosco, il calicantus sprigionandone il profumo. Ha chiuso il minuscolo ombrello; assorbe la pioggia e dalle ciglia ne emana di nuova .

Con le mani incrociate sulle gambe sembra proteggere dalle gocce un libro. Non ne sono certa, ma mi sembra un libro di poesie. Seppia, che sa leggere le persone, mi anticipa “Ungaretti, dal momento in cui lo ha preso tra le mani e’ diventato parte del suo corpo. C e’ sempre qualcuno che scrive ciò che siamo o che siamo stati o da cosa stiamo fuggendo”. Concordo, solo i dis-umani non piangono e non temono le guerre perché sono stati troppo fortunati, o troppo poco, nella vita.

“Siete tutti qui stasera, tutti i sospesi, la paura richiama le paure passate e non c’ e’ barriera, lockdown, muro che possa fermarle”.

Mi allunga il bicchiere sottolineando ” Grazie ma non bevo in servizio, aspiro gli aromi, molto buono. Le ho preso il suo Giornale sospeso, vista l’ ora è un giornale di oggi le cui profezie si saranno già avverate”. Io però devo sbrigarmi, alle 22 scatta il coprifuoco e non smette di piovere. “Grazie, per il “Corriere della Sera” e per l’ ombrello, grazie di cuore”. Seppia si sporge dal faro e mi indica il cielo. “Stia tranquilla , fuori non piove, non ancora, quando saranno scese centomila gocce la notte tornerà serena anche qui, alla Scala B. La Signora Nolente lo sa, unisce le sue gocce alle altre migliaia ,le riceve e le dona, ognuna diversa dall’ altra come le emozioni che le hanno generate.

“Mi perdoni , ma Nolente e’ un cognome che le ha dato lei ?”. Seppia soppesa la pausa prima di dare suono ai pensieri, “No è il nome che le ha dato la vita , Nolente o Volente, poteva scegliere, lei ha scelto il primo.”

Quadratura perfetta, tutti dovremmo cambiare nome tra il nostro scorrere e trascorrere, un nome che ci racconti.

Rientro nel cubo, mi strizzo i capelli in uno chignon di fortuna ed esco in fretta, tengo tra le mani il giornale, potrebbe servirmi se il tempo è cambiato anche nel presente.

Mentre attraverso l ‘ androne sento dei passi svelti e pesanti scendere dalla scala A preceduti da un profumo di erba tagliata e lavanda…il Notaio Stante ha fatto tardi, o, forse, deve passare dalla Scala B prima di tornare dove deve, volente o nolente.

E’ vero, fuori l’ aria piange a secco e come tutti i pianti trattenuti minaccia tempesta di virus e di batteri. Sono le 21. 30, manca mezzo’ ora al coprifuoco , poche auto, qualche passante che affretta il passo. Camminando sbircio il Giornale sospeso per farmi compagnia ; quando leggo il Corriere cerco subito l’ editoriale, da sempre, istintivamente. Eccolo: “Una Lastra con tutti i loro nomi” di Aldo Cazzullo. Lo leggo sottovoce ” …Centomila morti sono centomila tragedie”.

Dopo un anno ed un giorno di pandemia l’ Italia supera oggi le centomila vittime, mentre i sospetti positivi stamattina invadevano via Vasari , strade limitrofe e tutto il bel Paese.

Centomila lacrime che non conosciamo, centomila storie parallele alla nostra che non abbiamo incrociato, centomila carezze negate. Ci siamo abituati, come ci si abitua ai bollettini di guerra di un paese lontano o alle devastazioni di un terremoto dall’ altra parte dell’ Oceano, o ai migliaia di profughi senza scarpe che attraversano il mondo.

Ci siamo abituati come non fosse “roba nostra”?

No, non credo. Preferiamo non capire, scegliamo di essere ottimisti e fatalisti, per questo ci sono sempre il Campionato e Sanremo, per darci l’ illusione che, in fondo, è tutto normale in un forzato status quo virale.

E invece non è normale e piove, piovono centomila lacrime prima di un temporale in arrivo.

Ci avevano avvisato ma continuiamo a dimenticare l’ ombrello, volenti e poi dolenti.

Le lacrime del mondo sono immutabili.

Non appena qualcuno si mette a piangere, un altro, chi sa dove, smette”.-Samuel Beckett (Aspettando Godot)

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DONNE S.p.a. (unipersonale)

di Cristina Battioni

8 marzo 2021, la prima “Festa della Donna” senza assembramenti; l’ unica, forse, interdizione positiva in questo tempo virale. La pandemia impone misure di sicurezza sanitarie che, almeno per oggi, ci salveranno dai riti carnevaleschi, stereotipati e chiassosi in cui era scemata la giornata internazionale della donna nell’ ultimo ventennio.

Basta “tana libera tutte”, basta orde di donne rumorose nei locali, basta tavolate chilometriche nelle pizzerie invase da mimose gia avvizzite, basta banalizzazioni al ribasso. Basta anche alle solite frasi scritte per abitudine o per fare agli auguri preconfezionati, a caso e alla moltitudine.

Perciò non tedierò nessuno ricordando quanto poco abbiamo ottenuto e quante occasioni di valorizzazione abbiamo sprecato e non mi rivolgerò alle mie coetanee, vittime immolate alle incertezze di un’ epoca di transito, tra esempi materni di perfezione e nuove libertà mal gestite.

Preferisco indirizzare i miei auguri e le mie speranze alle Donne che verranno, alle bambine che vengono al mondo in un tempo nuovo, dopo la globalizzazione, dopo le estremizzazioni, dopo che le loro nonne , le loro zie e le loro madri si sono confuse tra rivendicazioni e doveri ereditati.

A voi scrivo di fare attenzione; le Donne non sono tutte uguali, è una bugia, anche l’otto marzo. Ogni donna è un entità e una variabile influenzata da un contesto e dalle esigenze culturali e, soprattutto, commerciali di quel contesto. Cercate di non farvi condizionare , è un errore che abbiamo già commesso, non copiateci.

Donna non è necessariamente una moglie, un amante, una madre, una figlia.

Donna è solo una parola che semplifica l’ appartenenza ad un genere, è uno stereotipo che fa fare due passi avanti e due indietro. Superate il concetto di genere, donne non si nasce ma si diventa e , vi prego, superate l ‘ artificiosa necessità di dover essere contemporaneamente Margherita Hack, Madre Teresa di Calcutta, Angela Merkel e Belen Rodriguez. Non ci riuscirete mai, semplicemente perché non è possibile . Sarete, vi auguro, ognuna di queste donne, a modo vostro, e in diversi momenti della vostra vita.

Vi diranno che una donna deve lottare il doppio, deve faticare il triplo, deve essere disposta ad ogni sacrificio per arrivare in alto.

Ma in alto dove?

Abbassate l’ asticella e le aspettative altrui, perseguite i vostri orizzonti, datevi il tempo di scoprirli, crescendo. E non ingaggiate sfide, non consumatevi verso una meta usando solo un punto di vista femminile, andate oltre, affrontate ogni cosa come Persona, come prima persona singolare, autonoma e senza genere. Vi aiuterà ad essere almeno meno confuse.

Le donne possono fare qualsiasi cosa, lo hanno sempre fatto, anche prima del movimento femminista. Durante le guerre hanno portato avanti famiglie, attività, città’, anche sprovviste di cultura o riconoscimenti, semplicemente con la forza di volontà e un necessario pragmatismo.

L’ unica cosa che le donne non hanno mai imparato, o introiettato, è l’ autostima, la capacità di volersi bene senza sentirsi amate da qualcun’ altro. E’ un male comune, un retaggio storico che pochissime hanno superato faticando e facendo esperienza.

Voi dovete sfruttare l’ incertezza di questo tempo che non sarà più quello di prima, tutto verrà rimesso in gioco, qualche ruolo verrà meno, qualche modello, mi auguro, fiorirà spontaneamente. Imparate a volervi bene, a contare su voi stesse, a bastarvi.

Non dovete dimostrare niente a nessuno, perché alla fine nessuno vi applaudirà , molti vi invidieranno, quasi tutti vi ignoreranno. Giudicatevi da sole, non cercate amore, datelo se volete ma non immaginatevi di avere qualcosa in cambio, amate se vi fa stare bene.

Non dovete essere madri per forza, scegliete di esserlo consapevolmente, il senso materno non è né un obbligo né una parte del Dna femminile.

Non accoppiatevi, sposatevi o accompagnatevi per paura della solitudine o perché “così fan tutte”, fatelo se è la cosa giusta per voi e, se non la è ,prendete le distanze; lo status di coppia non è più’ richiesto per essere accettati socialmente.

Imparate un mestiere, una professione, un’ arte, possibilmente qualcosa che vi piaccia, ma sforzatevi di rendere dignitoso anche quello che non vi piacerà se in cambio vi garantirà l’ autonomia, poiché la vita non è esattamente sempre una passeggiata e non lo è indipendentemente dal genere a cui si appartiene.

Amatevi e sceglietevi ogni giorno per quello che siete, che fate, che sbagliate e da cui imparate. E se nessun modello femminile intorno a voi vi rappresenta, beh… guardate altrove, anche al mondo maschile , cercatevi un paradigma di cui avete stima; non basta ma aiuta.

Mi piacerebbe essere ancora qui quando le donne di domani manderanno a quel paese gli stilisti che dettano tendenze, spesso assurde, solo per necessità di fatturato e bilancio.

Le riviste femminili, anche le migliori, non si sono evolute; ricreatele, riscrivetele, se ne sente il bisogno. Nel 2021 la bellezza si può costruire anche artificialmente, l’ intelligenza no; la prima serve a poco e può perfino essere dannosa se mal agita, la seconda non si deteriora ed è, comunque, supporto indispensabile alla prima e le sopravviverà sempre.

Amatevi prima e senza che lo facciano gli altri, non cercate l’ approvazione fuori ma dentro di voi e sfruttate la libertà per costruirvi, un pezzo alla volta, per capirvi, per perdonarvi e per ricominciare da capo, anche ogni giorno.

Scegliete sempre scarpe comode per andare lontano, toglietele se vi fanno male, sarete bellissime anche scalze se vi sentirete bene. Siate pronte ai cambiamenti, saranno sempre più veloci, siate elastiche più che resilienti e sempre sincere con voi stesse.

Tutto ciò non vi garantirà il successo, non vi è garanzia nel vivere. Non fatevi mai illudere dalla favola delle certezze. Siate il meglio di voi in ciò che fate, sarà già un successo che nessuno potrà oscurare.

Per augurarvi buona fortuna, perché anche quella serve, vi lascio con tre righe di una canzone scritta da una Signora che fu una ragazza molto autonoma e femminista ma che, come ammette lei stessa, si fece autogol proprio quando non comprese che non era dall’ amore di un altro che dipendevano la sua solidità e la sua sicurezza.

Voi sareste Donne in un tempo accelerato, capitelo prima di subire disastri inutili.

Io sono tutto l’ amore che ho dato

Tutto l’ amore incondizionato

L’imbarazzo dietro al vanto

Un sorriso dietro al pianto

Io sono tutto l’ amore che ho dato

Mare in tempesta e cielo stellato

Poco prima di uno schianto

(Ornella Vanoni)

In bocca al lupo a tutte Voi, cercate di trasformarvi da una Società unipersonale ad azioniste di una S.p.a. in cui non sia concesso perdere tempo rivaleggiando ma solo agire, per il vostro bene.

https://youtube.com/watch?v=8QiXlr2dyhg&feature=share

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NON SI RINASCE TUTTE LE MATTINE

(DAL QUINTO PIANO DELLA SCALA B SI VEDE IL MARE)

a mia madrepersempre

Oggi sento il bisogno di tornare nel mio monolocale sospeso, quinto piano , Scala B.

Ho preso un giorno di ferie, dopo averne accumulati centinaia mai usati. Non servivano, mi era sufficiente isolarmi nella mia bolla sospesa e insonorizzata per non avvertire la fatica.. Oggi non e’ sufficiente , non si rinasce tutte le mattine.

La giornata si preannuncia tiepida, avamposto di una primavera acerba e precaria come tutto quello che ci circonda. Il meteo, l’ unica previsione in cui possiamo ancora credere, annuncia una coda d’inverno che ci accompagnerà, forse, in una nuova zona rossa e deserta. Dopo un anno il tempo circolare torna al punto di partenza. Sembra una nuova stagione, ma non lo è. L’aria non si è ripulita e la rassegnazione ad un nuovo modo di esistere e restire non ci ha ancora mutato .

Perfino io, che ho scelto un lockdown volontario, indipendente da ogni virus, sento il bisogno, la necessità di poter guardare un orizzonte diverso, magari dal mio balconcino del quinto piano.

Approfittando dell’ ultimo possibile giorno di semi libertà vigilata faccio emergere dalla cantina la mia bici “Dei Imperial”, nobile pezzo di antiquariato ereditato dai miei 18 anni.

La bicicletta appartiene ad un altra epoca, come me; siamo in simbiosi perfetta.

Attraverso i viali incrociando runners, madri con carrozzine, carrozzine spinte da badanti, anziani con il giornale fresco, cani che portano a spasso i padroni. Un umanità che si muove al mattino in contrapposizione a quella chiusa negli uffici , nei negozi , nei luoghi di lavoro. Sono parte di un gruppo di privilegiati che è in vacanza senza saperlo o di esodati forzati.

Nulla fa presagire che quest’ aria apparentemente pulita e questo verde precoce torneranno pericolosi ed interdetti, forse già domani.

Raggiungo con una pedalata leggera Piazza della Vittoria animata da macchie di colori; i giubbotti variopinti dei bambini, il viola delle viole, il bianco di fragili margherite in branco. Il mio palazzo all’ angolo estremo della piazza conserva il suo grigio professionale ed immobile. Lego la mia Dei ad un palo della luce e mi introduco. Un occhio alla targa austera dello Studio notarile M & SOCI , un leggero contatto con il portone e sono già dentro, oltre il crocevia, nel corridoio chiuso, oltre il muro, sull’ ascensore della Scala B.

Tolgo la Ffp2 e respiro, nella capsula che sale si percepisce un sentore evocativo di erba appena tagliata, di lavanda e sapone di Marsiglia. Il pulsante “T” lampeggia, ne deduco che due inquilini siano scesi all’ Edicola sospesa del Prof. Seppia per leggere il loro giornale personale o solo per sentire il prato morbido sotto i piedi nudi.

La porta scorrevole si apre sulla soglia del mio piccolo cubo luminoso sospeso nel tempo, indifferente al tempo. Cammino in punta di piedi tra i miei oggetti indispensabili, divano, tavolino di vetro, cabina del bagno Piero appena ridipinta, libri, foto, quadri : ogni oggetto al suo posto , il passato armonizzato con il presente .

Ma qualcosa è cambiato, il grande vaso azzurro è stato spostato verso il balcone ed è colmo di forsizie e girasoli; un esplosione di giallo che satura la stanza.

La porta finestra del balcone è aperta e lascia entrare un vento salato, leggero e fresco; esco a respirarlo e mi accorgo che anche l’ orizzonte è cambiato.

Sparita la citta’ sotto di me, sparita la periferia e le prime colline per lasciar posto al mare che si intravede in basso, oltre le casette appoggiate al pendio, oltre la ferrovia ed i lecci . Vedo la spiaggia ed il mare al mattino. Rari puntini umani si spostano sull’ arenile senza interrompere l’ armonia silenziosa. Legato alla ringhiera in ferro sento oscillare un costume da bagno blu che la mia mente aveva riposto chissà dove. Lo accarezzo, sembra consumato e sbiadito dal sale e dal sole .

Il Maestrale pulisce l’ aria e la rende trasparente. “Vedi, guarda a sinistra, si vede anche Baratti e di fronte il profilo dell’ Elba”. E’ vero, si vede il piccolo golfo , una conca in bilico tra il Ligure e il Tirreno, il promontorio etrusco e l’ Elba come una balena immobile nell’ azzurro. Nei giorni di maestrale cielo e mare hanno lo stesso colore al mattino. Sento il profumo di focaccia calda provenire dall’ interno , la cerco nella dispensa in noce…eccola, ancora avvolta nella carta del forno accanto a due “pesche” dolci.

Trovo anche una bottiglia di Morellino di Scansano, un cavatappi e due bicchieri. Non bevo mai al mattino ma la stappo senza incertezze e riempio i bicchieri. Prima di fare colazione entro nella cabina azzurra per la prima volta. Ci sono conchiglie incollate alle assi delle pareti, semplici gusci di comuni conchiglie bivalve striate, qualche pezzo di bottiglia plasmato dalle onde, instancabili soffiatrici di vetri rotti . Appesi ad una parete avvisto un telo mare rosso e blu, una maschera con boccaglio e, a terra, le tue ciabattine in gomma. Tutta la roba “mia”.

Senza rifletterci mi spoglio e indosso il costume blu, mi avvolgo nel telo morbido a due piazze e guardo lo specchio mentre lo specchio guarda me. “Mi vedi ?”, gli chiedo. “Si certo, io ti vedo sempre , non ho mai smesso di guardarti attraverso le stagioni. Sei tu che non ti vedi più’.”. .Forse è meglio non vedersi per un po’, perdersi e ritrovarsi per fare uno sgambetto al tempo, alle regole, alle certezze.

Esco dalla cabina a piedi scalzi avvertendo qualche granello di sabbia tra le dita, nonostante la porta finestra sia aperta non sento freddo, mordo un pezzo di focaccia tiepida e alzo il bicchiere rosso e profumato.

“Brindiamo al tempo, alle assenze che sono le presenze più presenti, brindiamo a favore del vento, al passato che è più che mai presente, qui ed ora, a noi che eravamo, siamo e saremo qui dove si vede Baratti , felici di un niente che poi si rivela tutto.” Il vino mi ammorbidisce, la focaccia ha su di me l’ effetto che le madeleines avevano su Proust. Mi accoccolo sul grande divano , mi attorciglio a chiocciola su me stessa , bevo ed ascolto.

C’e’ musica, entra da fuori, probabilmente dal sesto piano.

“Una casa en el cielo, un jardín en el mar. Un alondra en tu pecho..un volver a empezar”… le parole e le note mi accarezzano mentre continuo a bere vino perdendo completamente la coscienza del tempo. Qualcuno sopra di me sta’ ascoltando musica e guardando un cielo senza nubi, non so chi sia e non importa ma mi rincuora condividere uno spazio sospeso, i miei vuoti e i miei pieni con qualcuno che si è perso e si stà cercando .https://youtube.com/watch?v=vtS_PE0xnL8&feature=share.

Mi lascio andare, fuori uso il pilota automatico, fuori uso ogni orologio, assente il mio senso del dovere, mi addormento in un abbraccio caldo e sicuro che mi avvolge e mi regala il sonno.

Dormire senza sonniferi, senza pensieri che vengono a svegliarti come mosche dispettose, dormire senza rincorrere le domande senza risposta è un regalo per i sospesi. Dormire è sentirsi a casa, in una casa dove la roba tua è tutta la tua vita, ma non lo sapevi prima che la vita stessa te lo spiegasse senza addolcire la pillola.

Quando mi risveglio potrebbe essere trascorso un giorno, un’ ora, qualche minuto, non riesco a percepirlo, sento solo un senso di riposo ormai sconosciuto, il benessere dei non tempi e dei non luoghi. Sono io, in un presente inqualificato, in un giorno di marzo di qualsiasi anno, in un ora qualsiasi del 5 marzo. Non sento più’ la musica ma continuo a canticchiare il refrain…”Tiempo y silenzio…”

La bottiglia di vino è a metà, i due bicchieri vuoti, la focaccia ha perso la fragranza del forno. Assaggio una pesca dolce ed ha lo stesso sapore stucchevole di sempre. Le compravo perché mi piacevano la forma ed il colore ma, dopo un morso, le abbandonavo. Certe cose non cambiano, le più semplici non cambiano e ci accompagnano anche quando siamo noi ad essere cambiati.

Mi rivesto con calma, sistemo i bicchieri, raccolgo le briciole di quel che resta di una festa ma, infilandomi le scarpe, scorgo un bigliettino da fiorista tra i rami di forsizia da giardino.

Sulla busta qualcuno ha scritto “Per te”. La apro convinta di trovare un messaggio o un istruzione della Scala B; nulla, la busta e’ vuota e deve bastarmi quel “per te”, da dovunque arrivi.

Non sempre esistono delle risposte, anzi, spesso, le risposte sono spiegazioni preconfezionate, sono solo ciò che vogliamo far sentire. Significanti senza significato.

Ho un giorno di vacanza, non mi chiedo che ora sarà fuori, qui è ancora una luminosa e tiepida mattina di marzo e vorrei lo restasse.

Rispettosa delle regole della Scala non asporto niente, né pesche, né fiori, né costume blu, lo restituisco alla cabina azzurro cenere e alle conchiglie a cui appartiene.

Prima di scivolare nell’ ascensore, che mi aspetta sempre, guardo fuori e saluto Baratti mentre il Maestrale, per accarezzarmi, mi spettina.

Non ho ancora voglia di tornare a terra, ho il lusso del tempo, posso fermarmi al piano “T”, visto che il pulsante non lampeggia in segno di possibile accesso, ho voglia di ritirare il mio giornale sospeso e salutare il Prof. Seppia, guardiano del faro e dell’ edicola.

Quando l’ ascensore si apre al piano la mia curiosità è smorzata dalla visione di un quadro sempre identico, prato verde e morbido, platano apparentemente magro e ancora spoglio, cespuglio di calicantus e, al centro, l’ edicola con le sue litografie appese come panni al vento. Vedo il profilo di Seppia intento a leggere dentro il chiosco, sciarpa azzurra che riverbera sui capelli bianchi, folti e scomposti.

Ma c’ e’ un particolare nuovo, uno schizzo ad inchiostro che non avevo notato.

Sotto il platano, sulla panchina in ferro verde c’e’ una figura di spalle, leggermente incurvata , probabilmente per leggere meglio un giornale. Sembra una miniatura del grande albero.

Indossa un copricapo verde scuro e un burberry chiaro, benché seduto lo schizzo è lungo, i contorni suggeriscono un corpo alto e magro, le mani che sfogliano il giornale sono i rami del platano, lunghe e nervose.

Faccio finta di niente, senza scarpe e in punta di piedi cammino verso l’ edicola e Seppia si accorge di me. Apre la finestrella e affacciandosi al suo davanzale mi precede. “Bentornata, sono felice di rivederla qui in una mattina così luminosa e ossigenata dal vento, la aspettavo”.

Seppia mi appare sempre come un giornalista inquadrato a mezzobusto, con la dizione perfetta e un tono sussurrato, lo sguardo intelligente e la postura sapientemente inclinata a favore di telecamera. Perfetto nella sua improbabile mansione.

“Salve Prof. Seppia, ha ragione, si sta proprio bene qui oggi, anch’ io avevo voglia di tornare con un po’ di calma”. Dopo una breve pausa scandita da un metronomo interiore, mi risponde “Calma, certo, la calma è una forma di pazienza, è un arte che va appresa, aggiornata, curata. La calma é tutto ciò che serve quando ci si perde. Ovunque.”

Sorrido perché non amo sottolineare o rovinare delle parole che mi piacciono, quando le sento, non voglio renderle banali, ne ho cura ; potrebbero servirmi.

Con la sua innata eleganza Seppia mi porge un quotidiano senza estrarlo dalla mia mensola. Lo solleva da una teca di vetro con cura e me lo porge. “Ecco, il suo giornale sospeso, come vede è più sospeso e fragile di tutti gli altri, ne abbia cura e mi chiami solo Seppia, senza prefissi”.

Stranita dal vento e dal vino mi sono completamente dimenticata i 3 euro da consegnarli per salvare un quotidiano dal macero. Frugo nella borsa, nelle tasche del giubbotto, ma ripesco solo due monete da 50 centesimi.

“Sono mortificata Seppia, mi ero completamente scordata di preparare la moneta…che idiota!”. Seppia non sorride, ride scoprendo i denti bianchi e perfetti.

“No, no, questa volta lei non li ha preparati perché non andavano preparati. Si ricorda le regole? C’è sempre un quotidiano sospeso che qualcuno, non sappiamo quando, ha già pagato per lei. Oggi è il suo turno, è un giornale speciale, lo capirà.”

Lo prendo tra le mani e con stupore mi accorgo che è una copia della “Gazzetta di Parma” da archivio.

“Perché non si siede sul prato e la sfoglia qui, così esercita la sua “calma” e respira il presente? Le allungo una coperta da stendere così non prende freddo. Purtroppo la panchina è occupata ma oggi si sta benissimo anche sulla’ erba , al sole”.

Ha ragione, perché no?

Mi accingo a stendere il panno in prestito per sedermi sul prato e sfogliare la mia preziosa Gazzetta quando la sagoma tratteggiata si alza dalla panchina. E’ un uomo alto, come si deduceva, ha le spalle larghe ma un corpo sottile e lungo, movimenti lenti ed accurati. Sono ancora in piedi con il mio giornale tra le mani quando si volta verso di me.

Lo schizzo a matita prende materia e colore, si trasforma in una persona che , in chissà quale segmento temporale, ho incrociato. Cammina lentamente verso di me, riconosco il bagliore degli occhi amplificato dalla luce, riconosco lo sguardo malinconico, il viso sottile e la pelle chiara. Ma come può essere…è il Notaio della scala A, il mio Notaio? Ma no, è impossibile, cosa ci fa qui, tra i sospesi e i rifugiati della Scala B?

Probabilmente ho solo sovrapposto i luoghi e le persone, abbasso lo sguardo temendo , a mia volta , di essere riconosciuta.

Intuendo il mio stupore mi precede ,”Buongiorno, glielo avevo detto che ci saremmo rivisti in circostanze migliori. Ero certo che la Scala B l’ aveva trovata già prima di arrivare nel mio ufficio. La Scala sa sempre chi trovare.”

Seppia guarda la scena e rompe l’ imbarazzo scegliendo con cura poche parole.

“Non si preoccupi, qui si è, semplicemente, fuori facciamo, qui siamo. Fuori fingiamo di sapere, qui cerchiamo di capire. Il qui e ora non è inquinato dal fuori e dal dopo.”

Credo di aver capito e sorrido. Sorride anche il notaio mentre si avvia verso l’ ascensore sussurrandomi “Guardi il suo giornale sospeso, nulla è casuale qui.

Ogni cosa è quella che deve essere ,nel momento in cui deve essere”.

Guardo la persona ritornare contorno disegnato prima di dissolversi nell’ ascensore monoporzionato.

Seppia continua a leggere con estrema naturalezza, composto e concentrato, senza il minimo accenno di stupore e senza avvertire il motivo di dover fornire ulteriori spiegazioni.

Gli restituisco la coperta che profuma di rosmarino e lo saluto. “Grazie Seppia, oggi è una giornata particolare, sono scappata qui per provare a viverla a modo mio, mi sembra di esserci riuscita, non era mai accaduto prima”.

“Prima non esiste, prima è adesso e se riuscirà ad acquisire il ritmo danzerà perfettamente in qualunque tempo. La aspetto con calma, memorizzi, sempre con calma.”

Eseguo, cammino leggera e al rallentatore verso l’uscita di scena, mi fermo un istante per pettinarmi con le dita e mi lascio trasportare verso il quotidiano.

Ormai eseguo a memoria il percorso, oltrepasso il bivio, oltrepasso la scala A dello studio notarile ed esco . La piazza è intatta, stesse macchie di colore , stessa luce tiepida. Guardo l’ orologio , le 11 a.m. Ho ancora tutta la giornata davanti , una giornata speciale , una di quelle ricorrenze che mi facevano soffocare dentro la mia bolla di isolamento nel tentativo di rendermi invisibile.

Oggi è diverso, ho visto Baratti senza provare un dolore anche fisico, mi sono addormentata tra le braccia di un assenza sempre presente ma mai così forte e percepibile. Con la mascherina calata libero la mia vecchia “Dei” e, prima di riporre al sicuro il mio regalo in un borsone laterale, infilo gli occhiali per osservare la prima pagina della mia Gazzetta vintage, una stampa sopravvissuta a migliaia di maceri.

Leggo la data “5 marzo 1971”. Non è il giornale di ieri, è il giornale di oggi, di un oggi che è il mio presente, 50 anni dopo. Ne avrò estrema cura, come del tempo che custodisce per sempre. Il mio e il nostro tempo, che non ha diritto di reso, va solo riposto in una teca di vetro e maneggiato con cura. Come le cose fragili e preziose che sopravvivono e anelano al “persempre”.

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NON CHIAMATELO FEMMINICIDIO (s.v.p)

“IL PRIMO ARTICOLO DAL GIORNALE SOSPESO”

di Cristina Battioni

Sera finalmente, tra le mura del mio domicilio in mattoni e pareti da ritinteggiare, posso uscire dalla mia bolla di sospensione e lasciarla riposare.

Devo preparare la cena ma ho urgenza di una doccia che si porti via la polvere del giorno e il peso della testa sulle spalle. Appoggio borsa, giornale, occhiali alla rinfusa e mi impossesso della mia stanza preferita; il bagno. Via le scarpe, le calze e i vestiti, svito un flacone di bagnoschiuma da grande distribuzione che promette di avvolgermi in un giardino di zagare.

Apro la doccia in anticipo sapendo che l’ antica caldaia mi offrirà acqua calda e vapore con i suoi tempi rallentati. Aspetto avvolgendomi in un accappatoio marmorizzato dai troppi lavaggi senza ammorbidente, ha la rigidità di un cartonato ma e’ immenso e riesce ad avvolgermi completamente. Mentre il calore dal box doccia comincia ad occupare la stanza, mi siedo a terra con le gambe incrociate , sciolgo i capelli e allungo la schiena come un gatto stanco.

Un vapore simile ad un blocco di nebbia satura la stanza mentre il profumo dolciastro e nauseabondo delle zagare mi satura le narici. L’ acqua della doccia e’ bollente e lascio che la cascata da acquedotto si porti via tutta l’ aria sporca che sento aderire come una pellicola alla pelle. Pochi minuti di incoscienza in un bagno turco domestico mi dissociano, lascio scollegare pensieri e azioni mentre ascolto il gorgoglio del risucchio d’ acqua e schiuma sotto di me. La patina appiccicosa della giornata se n’ è andata, dissolta da un bagnoschiuma simile ad un detersivo profumato.

Quando esco dal box la stanza è invasa da nubi basse, lo specchio appannato, fatico a respirare. Apro leggermente la porta verso il corridoio ed intravedo il quotidiano sospeso e gli occhiali, mi allungo gocciolando in punta di piedi e li afferro.

Impossibile asciugarsi, continuo a sudare e a respirare fumenti di zagare. Apro la finestra per far uscire le nubi, indosso l’ accappatoio come un cappotto e mi siedo sul tappetino che sembra un tiragraffi rosa e sfilacciato.

Penso all’ edicola sospesa e all’ aria pulita del piano T, infilo gli occhiali e sbircio “La Stampa” del giorno prima, 21 febbraio. La prima pagina, come da copione, è sovraffollata da Draghi, governo che regge ma oggi gia’ scricchiola, dichiarazioni e controdichiarazioni, curve pandemiche , dati, regioni cangianti, categorie arrabbiate, ristori, ristoratori in piazza, immagini marziane e un bel editoriale che cerca di ordinare il caos circostante.

Vado oltre, sfoglio la seconda, la terza pagina con noncuranza fino ad una foto che mi ferma; focalizzo. Mi pare l’ immagine di una saracinesca abbassata per il lockdown in qualche zona rossa circondata da manifestanti…ma no, qualcosa è fuori squadra, ci sono fiori e nastri viola, i presenti non manifestano, sono distanziati e tengono la testa bassa come in preghiera. Leggo la didascalia: “Fiori davanti al negozio di Clara Ceccarelli, 69 anni, uccisa dall’ ex compagno”.

Non capisco , Clara e non Deborah..? Ma io sono certa di aver sentito un altro nome tra i titoli del telegiornale oggi…Clara, Deborah o Rossella? Sono la stessa vittima, la stessa persona? Sì, in un certo senso. Proseguo la lettura per cercare di capire; Clara Ceccarelli uccisa a coltellate dall’ ex compagno di 59 anni che aveva lasciato quando si era accorta di essere copiosamente derubata dalla cassa del suo negozio di pantofole. Clara non l’ aveva denunciato, ci aveva provato per poi ritirare la denuncia per persecuzione e, nel frattempo, si era organizzata il suo funerale, per non dare fastidio a nessuno.

Ma Deborah e Rossella, chi sono? Esco in accappatoio ancora gocciolante e accendo Sky TG 24, leggo i roll ed eccole Deborah Saltoni e Rossella Placani, entrambe vittime oggi , 22 febbraio, di femminicidio. Comincio a comporre i tasselli della strage, il quotidiano era di ieri , questo e’ oggi ed è peggio di ieri.

Ventiquattro ore dopo la morte della Signora Clara di Genova accoltellata nel suo negozio di pantofole , la strage si amplifica con altre due vittime di femminicidio.

Deborah Saltoni , 42 anni, e’ stata massacrata con un’ accetta in casa sua, in un tranquillo paesino attaccato a Trento. Unico indagato e ricercato il suo ex compagno che, teoricamente, avrebbe dovuto essere agli arresti domiciliari.

Da un paesino in provincia di Trento lo studio si collega con l’ inviata in un altro paesino, Bondeno , nel ferrarese dove in mattinata Rossella Placati, 50 anni e due figli, e’ stata uccisa dal suo ex compagno, un quarantacinquenne che aveva messo fuori casa.

Immobile ascolto le parole di commento che continuano a usurare e ripetere la parola “femminicidio”; uno ogni 5 giorni dall’ inizio del 2021, un’ escalation inarrestabile.

Ed e’ proprio l’ imporsi di un retaggio culturale legato alla parola “femmina” in una società teoricamente evoluta, liberale, democratica ed emancipata a lasciarmi perplessa. Non mi stupisce la violenza esercitata sulle donne , è sopravvissuta ai millenni, dalle caverne ai castelli, dalle eretiche bruciate al rogo alle donne sfregiate dall’ acido.

Mi fa paura, invece, il perpetuarsi di una malattia sociale la cui curva sale costantemente , più di quella pandemica , che sfugge al tracciamento e non avrà mai una cura se non si comincerà ad agire pragmaticamente sulla preparazione culturale e psicologica di un paio di generazioni.

Clara , Deborah, Rossella e tutte le altre prima di loro non erano femmine erano Donne. “Donna” al singolare ha un valore collettivo, rappresenta l’ intera componente femminile della società, la sua spina dorsale. Madri, nonne, sorelle, colleghe, medici, infermiere, insegnanti, badanti sono Donne non femmine.

Mi ritorna in mente una risposta data dalla Professoressa Montalcini ad un giornalista che probabilmente voleva invadere la sua sfera privata, gli disse solo :”Io sono il marito di me stessa.”

Questa frase andrebbe scritta a caratteri cubitali sulle lavagne in prima elementare, il concetto che veicola dovrebbe essere passato con il latte dalle madri alle figlie.

E’ la consapevolezza di bastare a se stesse che fortifica, la coscienza di essere forti perché appagate da quello che sappiamo fare e dare che rende autonome.

Non abbiamo imparato a memoria la lezione della Montalcini e nemmeno a proteggere la nostra autostima da cui trarre la forza di contare su noi stesse sempre e senza subire il disagio di quello che dicono “gli altri “. Non abbiamo capito che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna ma dietro una grande donna può anche non esserci nessuno.

Non lo abbiamo imparato e rischiano di non imparalo le nuove donne perché nessuno glielo insegna, nemmeno nel XXI secolo. Ci deve essere in qualche meandro dell’ apprendimento un passaggio sbagliato, qualcosa che fa preferire la paura alla libertà, l’ accettazione alla presa di coscienza. Qualcosa che confonde il silenzio con la dignità, il dare con il ricevere, pericolosamente.

Sono quasi certa che nel giornale sospeso di domani o di dopodomani troverò un altro nome di donna, altre foto con fiori e scarpe rosse , tutte con il medesimo bel sottotitolo :”Ennesimo femminicidio”. Come non capire che anche le parole sono sassi; chi ha coniato questo termine maschilista “Femminicidio”?

Perfino l’ enciclopedia Treccani fatica a definirlo e prende in prestito proprio l’ uso che ne ha fatto Roberto Lodigiani, un giornalista de “La Stampa”, il giornale sospeso, che ho tra le mani. https://www.treccani.it/vocabolario/femminicidio_%28Neologismi%29/

Femminicidio è una manipolazione linguistica , sinonimo accattivante di omicidio con aggravanti di crudeltà, vessazioni persecutorie e psicologiche agito da un essere umano contro un altro essere umano a cui, spesso e purtroppo, era legato da un rapporto parentale o di condivisione. E’ una strage di Donne , non di femmine, una strage che distrugge vite, affetti, progetti, persone. Ora che il “delitto d’ onore” appare fastidiosamente antiquato chiamiamolo “Femminicidio” e diamo spazio a un’ altro fenomeno linguisticamente contemporaneo ma aberrante ed inquietante quanto il primo.

E a seguire decine di scarpette rosse postate dalle ” femmine” per solidarietà. Ma come scarpette rosse? Sostituitele con foto di manette, sentenze di ergastoli, corsi di difesa personale, lezioni di identità e di genere dalle elementari. Basterebbe scrivere sulla lavagna la frese della Professoressa Montalcini: ” Io sono il marito di me stessa”. A sei anni c’ è speranza che il messaggio arrivi forte e chiaro e si cementi come un solido sostegno di una vita più cosciente e sicura.

Una donna che lascia un uomo si salva, forse, solo se è realmente disposta a rinunciare a tutto, casa , figli, beni in comune, mantenimento.

Perché quello che nessuno scrive o dice è che in una società, non più basata sull’ onore ma sull’ economia, è il danno economico che una separazione può provocare all’ uomo ad innescare l’ ultima miccia verso l’ esplosione della crudeltà. Comunque la si pensi, esaminando ogni triste storia, è il danno complessivo che il maschio non riesce ad elaborare ed accettare. Abbandonato si, ma anche povero e senza casa no, piuttosto la follia, la violenza, la vendetta.

Rossella, Clara, Deborah e tutte le altre Donne sono state uccise perché con loro se ne andava non solo la compagna, la colf, la solidità, la crocerossina ma anche, a mio avviso, soprattutto perché con loro se ne andavano anche la casa di famiglia, i figli, il denaro per pagare gli avvocati, il denaro per il mantenimento, il denaro per consolarsi della perdita. Questa è la parte pragmatica e triste.

Alle donne bambine va spiegato, anche se precocemente, che l’ amore, la stima e la compagnia le devono trovare in loro stesse, in ciò che realizzano , in ciò che sanno fare ; che dovranno spesso essere madri, sorelle , figlie di loro stesse quando la vita lo renderà necessario , senza cercare un compagno che le accompagni.

Purtroppo anche la prevenzione al maschile sarà compito soprattutto delle Donne, delle madri, delle nonne, delle insegnanti, delle amiche. Respirare rispetto nella culla non garantisce miracoli ma certamente non nuoce.

Seppia sapeva che mi sarei fermata su questa foto, aveva intuito che io mi sono sposata con me stessa molti anni fa e non per ermetismo ma semplicemente perché mia nonna , una Donna di inizio novecento, me l’ aveva indicata come l’ unica via sicura, nel bene e nel male. Lei lo aveva capito; nella fretta di un tempo digitale scandito da micro solitudini, noi tutte rischiamo di dimenticarlo.

Abbiate estrema cura di voi e dei vostri sentimenti, fidatevi del vostro istinto e abbandonate definitivamente la bugia del “vissero felici e contenti”, era solo ed è un espediente narrativo, un artificio commerciale, banale e consolatorio. Ricordate che siete Donne , mai più solo femmine sacrificali.

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L’ EDICOLA SOSPESA

di Cristina Battioni

Ogni mattina, prima della biancheria e dei vestiti, indosso la mia bolla di sospensione , la mia impalpabile vestaglia di indifferenza e comincio a galleggiare per casa senza nessun entusiasmo, qualche centimetro sopra il quotidiano che mi attende con l’ inquietudine di sapere già il prevedibile, nel bene e nel male.

La mia invisibile protezione si sveglia presto, prende il caffè con me, si appanna quando sospiro indolente, i sospiri e i respiri la gonfiano e la coibentano trasformandola in una capsula resiliente ma invisibile. Nonostante i miei tentativi di renderla resistente ma elastica ed impermeabile alle intemperie , lei regredisce allo stato fragile ed etereo di una “bolla di sapone” ogni giorno, per pochi minuti. Ogni giorno, di ogni stagione e di ogni mese diventava iridescente e vulnerabile nel momento esatto in cui la luce naturale si ritira.

Un tempo piccolo, minuscolo in inverno, attiva la sua metamorfosi in membrana permeabile, translucente e transeunte, come me. Il cambio di passo e di riflessi tra la luce ed il buio la attraversava mentre cerca di fuggire verso l’ alto, la deforma fino a farla scoppiare ed evaporare.

Lo so, lo temo e cerco di non espormi mai a al viraggio di colori dell’ imbrunire.

Io la chiamo “Saudade del crepuscolo”, il mio tallone d’ Achille, il mio fragile punto di rottura; faccio attenzione ma non sempre riesco ad evitarla. La saudade del crepuscolo , influenzata da troppe variabili, è inattendibile, non rispetta mai un orario preciso, non è mai puntuale, mai esattamente prevedibile nel tempo digitale.

Per evitare quei pochi minuti pericolosi posso solo non guardare, se mi trovo in un interno li precedo accendendo le luci ma quando Venere appare in uno spazio esterno i colori della sera mi attraversano l’ iride provocando la dissoluzione della membrana e lasciandomi sospesa ma senza supporto; nel breve intervallo di viraggio della luce diurna precipito in un capogiro che centrifuga immagini, profumi, vuoti , assenze e presenze intangibili.

“Sul far della sera cerca di non trovarti mai sola in strada”, diceva mia nonna; aveva ragione.

Sono solo le quattro del pomeriggio di una giornata di febbraio piena di luce, potrei continuare il mio lavoro qui in ufficio, in silenzio e con i neon già accesi anzi, dovrei, pur sapendo che non c’ è più molto da sistemare. Il caos ed il disordine hanno vinto la loro partita prima che io scendessi in campo. Potrei andare a fare la spesa, passare l’ aspirapolvere o semplicemente perdermi davanti ad uno schermo acceso o spento con un Campari in mano.

No, non oggi, non ancora. Voglio tornare al mio rifugio della Scala B prima che questo chiarore primaverile scompaia, voglio sentirmi in vacanza, dimenticare il tempo digitale almeno oggi. Non voglio sentir scoppiare la mia bolla di sapone al tramonto. Chiudo tutto, scollego tutto, mi infilo il cappotto e salgo in auto.

Guido piano nel poco traffico dei viali che portano verso il centro, svolto a sinistra per infilarmi nel grande parcheggio che definisce l’ inizio della zona pedonale, a pochi metri da Piazza Della Vittoria. Estraggo il biglietto d’ accesso e lo infilo in tasca insieme a qualche euro , pronti per il pagamento.

Attraverso un piccolo parco precocemente verde, i colori e l’ odore buono di una stagione nuova invadono anche la mia bolla e oltrepassano i filtri. La piazza è quasi deserta, qualche figura mascherata la attraversa velocemente. Bar, ristoranti, negozi chiusi sembrano vuoti a perdere mentre la vita si muove blindata negli uffici contingentati. In un anno di assenze anche i palazzi, la fontana e il teatro sembrano deteriorati, pallidi come esseri umani precocemente invecchiati. Un anno divenuto un’ epoca segnata dall’ esodo di una generazione ,in bilico tra ciò che era e ciò che forse sarà. Il presente non è pervenuto, e’ assente per malattia.

L’ edificio dello Studio notarile è rimasto immobile. Immagino che anche il notaio stia facendo esattamente le stesse cose di ieri e di prima e di prima ancora con lo sguardo ceruleo dolcemente segnato e rassegnato dal senso del dovere antico che lo costringe a ripetere metodicamente fino alla nausea lo stesso ruolo, nella stessa scena, per lo stesso pubblico indifferente.

Sono le 16.20, giusto in tempo, il sole e’ ancora alto sopra l’ orizzonte. Mi tolgo la mascherina sudata e tiro un sospiro di sollievo mentre l’ elevatore monoporzionato comincia a salire e a mettere una distanza fisica tra me e la città che resta sotto.

Ma un istinto irrazionale mi impedisce di distogliere lo sguardo dal tasto a forma di “T”, l’ unico della pulsantiera. Ho tre euro in tasca e voglia di aria silenziosa e pulita, lo premo.

La mia lista delle istruzioni non descriveva il piano T, lo indicava schematicamente come il piano dell’ “Edicola sospesa” con un piccolo giardino , un albero , una panchina e la capienza massima di due inquilini. L’ ascensore scende mentre un istintiva e dimenticata curiosità’ sale.

Il piano T è un terrazzo , un piano terra senza soffitto , un grande cubo aperto verso il cielo ma chiuso agli sguardi esterni da pareti ricoperte d’ edera rampicante e gelsomini in letargo.

Il pavimento è solo prato, verde scuro, rustico, nato da quel tipo di semente che sopravvive a tutto. Un acero alla mia destra sovrasta il muro, sembra aver rimosso il tetto per farsi spazio. I rami sono ancora spogli e assomigliano a braccia che si assottigliano in mani e poi in dita che cercano la luce. Al centro un chiosco esagonale, quasi una riproduzione in scala ridotta di un edicola, a fianco un cespuglio di Calicanto in fiore con il suo profumo che abbraccia l’ inverno per consolarlo. Intorno il silenzio.

Mi immergo in questo quadro perfetto senza indugiare, come se la bolla mi avesse lasciato al sicuro e senza scarpe a camminare sulla’ erba. Nella leggerezza inconsueta dell’ istante non mi accorgo di una presenza, prima sfuocata, poi sempre più’ nitida.

Dall’ interno del chiosco incrocio un riflesso paglierino e rassicurante , mettendo a fuoco mi accorgo che sorge da due occhi marroni, vissuti e avvolgenti. Mi avvicino all’ edicola; nessun giornale esposto, solo litografie di copertine del primo novecento e un cartello scritto a mano “Qui giornale sospeso”. Come affacciato alla finestra un mezzobusto mi sorride, mi appare come un giornalista intento ad intervistarmi in un talk show. Ha un viso affilato, zigomi alti e autorevoli sdrammatizzati da uno sguardo luminoso che sembra riflettere e trattenere l’ azzurro cinerino della sciarpa e il bianco dei capelli folti e spettinati . Mi accoglie con un tono inaspettatamente famigliare “Benarrivata mia cara, lei dev’ essere la nuova inquilina del quinto piano; non abbia paura e si tolga pure la mascherina, qui siamo impermeabili a tutto ciò che accade nel tempo parallelo, là fuori. Qui l’ aria è pulita, i respiri sono puliti.”

Senza bolla, senza orologio, con il contatto morbido dell’ erba sotto i piedi sono disorientata. La cortesia sorridente mi destabilizza sempre, è cosa rara e non sempre affidabile. Ma non importa, non qui e adesso. Ritrovo un modesto equilibrio e sottovoce gli domando se posso avere il “giornale sospeso”.

“Ma certo, glielo prendo subito, l’ avevo già preparato ,guardi..”. Mi allungo appena per sbirciare con finta discrezione e lo osservo mentre con leggerezza estrae il mio giornale da un’ anta di biblioteca con sei ripiani, quattro vuoti. Restano due giornali, il mio e un giornale con inserto nel sesto ripiano. “Eccolo, come sa è un quotidiano di ieri che ho salvato dal reso e dal macero. Aspettava lei. Lo può leggere qui se desidera o portarlo altrove, anche fuori di qui. Sono certo ci troverà qualcosa di interessante.” Gli faccio scivolare nel palmo della mano i 3 euro, come da istruzioni, e lo ringrazio. “Grazie e complimenti per l’ edicola, il giardino e l’ atmosfera .” Mi risponde allungando la mano forte ma elegante. ” Mi perdoni se non mi sono presentato, io sono Il Prof. Seppia , Seppia per tutti. Mi troverà sempre qui, per il giornale, per una boccata d’ aria o per qualsiasi informazione le occorra.”

Mi porge, come fosse una pagnotta ancora calda e preziosa, “La Stampa” del giorno prima. Profuma ancora di stampa, di nuovo.

Ringrazio e sorrido trattenendo la curiosità di fare domande, non sono più abituata e temo le risposte di convenienza.

Vinco anche l’ innegabile tentazione di sedermi sulla panchina ad annusare l’ aria ed il giornale. C’ è luce , una temperatura piacevole e forse qui l’ imbrunire non mi prenderebbe a pugni ma preferisco dosare ogni rapporto e ogni sensazione. Questa è piacevole, la voglio portare via con me con il giornale e con l’ aria ossigenata che mi fa sentire meno pallida.

“La ringrazio Dott. Seppia, sono stata felice di conoscerla, si sta bene qui , con questa luce, questi profumi e questo piacevole silenzio; tornerò presto ma ora devo andare, prima che finisca il giorno.”

Seppia si sistema la sciarpa ,la gira intorno fino agli zigomi , forse è la sua protezione personale o forse solo un indumento che non gli fa sentire freddo dentro. Coglie il mio attimo di esitazione e mi saluta con un insieme di parole calibrate, scelte, come un codice creato per me “Vada attraversando il giorno in punta di piedi come è arrivata qui, non tema le ombre della sera. Finché sarà qui non verra’ mai sera. Verrà solo quando sarà lei a chiamarla. A presto.”

L’ ascensore si apre , mi volto per salutare con la mano ma Seppia si è già ritirato nel suo chiosco e nei suoi archivi, avverto uno spostamento millimetrico verso l’ alto. Sono già nel corridoio, infilo la mia mascherina stropicciata e guardo l’ orologio, le 16 e ventuno minuti. Come speravo, come sapevo. Cammino leggera, ripeto a memoria ogni passo verso il parcheggio; cerco la cassa automatica , inserisco il biglietto e aspetto la comparsa dell’ importo dimenticando di non avere più’ le monete nella tasca. Importo nullo, la fessura mi rigetta il biglietto. Entrata 16.10, uscita 16.21, importo minimo non raggiunto. Non ci avevo pensato dopo la percezione di un pomeriggio trascorso al piano “T”, un minuto percepito come un’ ora, un’ anno come un’ epoca, una vita come un rapido transito di un viaggio troppo spesso subito.

Salgo in auto e appoggiando il mio giornale sospeso sul sedile passeggero ed inaspettatamente un biglietto bianco scivola fuori dal suo nascondiglio tra la prima e la seconda pagina:

"Ci muoviamo in un pulviscolo madreperlaceo che vibra,
in un barbaglio che invischia gli occhi e un poco ci sfibra."

Montale.. se non ricordo male. Il Prof Seppia deve aver letto molto ma soprattutto ha imparato a leggere le persone senza sfogliarle e senza spogliarle. Sorrido senza volerlo, c’è ancora luce davanti e dietro di me.

https://youtube.com/watch?v=u5f5wqll0-s&feature=share

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“Ogni tempo ha il suo tempo”

(Anche in lockdown)

dI Cristina Battioni

Le 7 regole della Scala B non mi sorprendono, le trovo perfettamente adeguate al mio stato di sospensione, al mio bisogno di pausa e reset. Le imparo a memoria senza doverle rileggere, come se le avessi scritte io. Sono le regole di un lockdown privato.

I ” lockdown” esistevano molto prima ed indipendentemente dalle pandemie, dai comitati tecnico scientifici o dalle decisioni governative; talvolta si chiamavano isolamenti volontari, talvolta erano e sono separazioni causate da stati di fatto immodificabili. Questa parola così inflazionata nella nuova epoca virale indica la condizione di vita quotidiana di milioni di persone ieri, oggi e domani.

Certo, il temine anglofono ha maggior impatto , così come il “coprifuoco”; evocano periodi di guerra e di paure condivise. Con il “Lockdown” di Stato si chiude in casa una società abituata al dinamismo, alla fretta, alla produttività, le si impone una prigionia forzata ma necessitante.

Tuttavia la chiusura per necessità non è molto diversa, nel suo significato, dalla sospensione, dall’ isolamento in cui moltissime persone vivono giorni, mesi, anni, vite.

Entra in isolamento sociale un malato, anche asintomatico, nel momento in cui gli viene diagnosticata la malattia; la sua posizione nel tempo e nello spazio cambiano nell’ istante di una comunicazione .

Il sano è libero, il malato viene messo in pausa. Gli ospedali sono da sempre dei non luoghi, custodi di un tempo interno diverso da quello esterno, con i minuti e le ore dilatate , con esistenze ridotte all’ essenziale. Fuori tutto continua, dentro la vita delle persona diventa l’ attesa dei pazienti. Si e’ sospesi, nel corpo e nei pensieri.

Anche le Rsa di cui nessuno si occupava prima dell’ Evento “E” sono sempre stati luoghi sospesi, non di transito ma di stasi. Luoghi in cui il presente non ha più’ importanza, il meglio se n’ è andato e del futuro che resta è meglio non occuparsene. Si aspetta senza darlo a vedere, magari fingendo di giocare a carte , leggendo un giornale vecchio o utilizzando come unico scadenzario l’ ora dei pasti o delle visite, anche quando non viene mai nessuno. In isolamento sono tutte le persone non più abili, costrette a letto da un malfunzionamento delle componenti motorie, dalle chemioterapie, dalle patologie neurologiche. E per ognuno di loro c’ è un’ altra persona che, nel tentativo di averne cura, con loro si sospende e attende. Mentre fuori tutto continua velocemente, ripetitivamente nella rincorsa del tempo, nella paura di farsi sfuggire il tempo, quasi fosse un bene razionato e , nell’ illusione di non sprecarlo lo si consuma sovraccaricandolo con qualunque cosa. Qualunque cosa è preferibile ad un tempo sospeso che spaventa, disorienta, evoca la solitudine come uno stato di smarrimento che obbliga a convivere con se stessi.

E poi ci sono i sopravvissuti, quelli che di momenti chiusi e aperti ne hanno attraversati tanti, quelli che dopo aver corso e rincorso una meta mai definita si ritrovano al centro esatto di una spirale in cui fine ed inizio coincidono. Sono le persone stanche, nessuna malattia, nessuna patologia, solo un senso di spossatezza che si intensifica giorno dopo giorno. Si entra in questa anonima categoria senza volerlo, dopo una caduta, dopo aver intrapreso la strada sbagliata ad un bivio, dopo aver preso coscienza di aver corso troppo per afferrare il momento perfetto senza accorgersi che se n’ era già andato via prima, imperfetto e senza avvisare .

Il lockdown da stanchezza è solo una pausa, una sospensione momentanea in una bolla che permette di vivere un’apparente normalità condivisa con gli altri senza esserne partecipi. Dalla bolla si osserva al rallentatore, non si sentono i rumori, si selezionano le frasi, le parole che possono entrare.

Le 7 regole della scala B sono solo un prontuario da sconfinamento volontario, sono istruzioni per l’ uso, istruzioni per l’ uso di un tempo che non sfugge, non sfugge perché non sta scappando: è’ fermo e, per una volta, è tuo, ti corrisponde, ti aspetta.

La pausa autoconcessa è una terapia ed avrà la durata necessaria a coordinarsi con un ritmo che non e’ conosciuto e sperimentato; ieri e oggi sono paralleli e domani e’ gia inglobato. Il futuro è già in divenire e si sottrae alle progettazioni stereotipate e riutilizzate, e’ gia’ qui, ora e ovunque. Gli orologi digitali accumulano secondi, minuti , ore di ritardo perché il dopo non esiste , è semplicemente ciò che già sta accadendo oggi.

Inutile correre, riempire, svuotare, accelerare, prevedere. Il meccanismo ha preso un ritmo diverso e gli stanchi cercano di adeguarsi senza fuggire. Il cubo al quinto piano della Scala B è esattamente il contenitore della pausa e, non misurandone la durata, la consente.

La mia lettera di benvenuto mi ha consentito una decelerazione favorita dalla calligrafia allungata di un corsivo manoscritto in inchiostro blu senza sbavature, un dettaglio capace di annullare un possibile stato di urgenza e vertigine sostituendolo con una piacevole sensazione di calma. Un fermo immagine nel caos.

Ora devo solo attestarne la veridicità. Stando alle istruzioni uscendo dal mio monolocale, ritornando al crocevia delle scale condominiali dovrebbero essere le tre e dieci del pomeriggio, esattamente l’ ora che segnava il mio orologio quando sono entrata per il mio appuntamento dal Notaio. Mi alzo con calma, il mio orologio e’ fermo, scomparsi anche i numeri digitali sullo smartphone, sfioro le foto appese alle pareti fino a raggiungere con la punta delle dita la porta senza chiavi e serratura.

Avverte il mio tocco e si apre. Sono nell ascensore monoporzionato e, mentre osservo il tasto “T”, la porta scorrevole si riapre sul corridoio cieco, raggiungo il centro dell’ androne, svolto a destra verso la scala A e guardo l’ orologio; le tre e dieci.

Ho tempo, posso scegliere le scale, non sono stanca, ho riposato. Mi ero dimenticata come si fa.

La porta dello Studio notarile , tecnologica e di design, si apre automaticamente e una perfetta segretaria seminascosta da una mascherina sartoriale mi accoglie sottovoce..”Prego mi segua, la faccio attendere un minuto mentre il Notaio si libera. Lei è puntualissima.” Prima di lasciarmi a riflettere su quel ” puntualissima” fa marciaindietro e con affettata cortesia mi chiede se desidero un caffè. “No, la ringrazio, gentilissima, ma bevo caffè solo al mattino”. Ovviamente non aggiungo solo al mattino perché sono così stanca che anche tutto il caffè della Nespresso non riuscirebbe a ridarmi tono, mi agiterebbe con il risultato di trasformarmi in una trottola insonne.

La saletta d’ attesa sembra piuttosto una piccola sala di rappresentanza, bel tavolo in vetro ovale senza alcun tipo di alone, gel disinfettante al profumo di cedro, quattro sedie ergonomiche e comodissime, due quadri alle pareti, ampia finestra insonorizzata affacciata su Piazza Della Vittoria.

Tutto perfetto, lucido, armonico , freddo, ordinato e santificato. I passi veloci del notaio mi raggiungono prima di lui insieme ad un fruscio di carte. E’ un uomo alto, tra i 60 e i 70 anni presumo, sobriamente elegante, molto britannico con il suo incarnato pallido e gli occhi cerulei. La compostezza quasi innaturale del suo essere è tradita solo da un ciuffo di capelli che paiono posizionarsi autonomamente controcorrente .

Si siede con calma dalla parte opposta del tavolo, appoggia i fascicoli , guarda l’ orologio e , come per prassi , comincia ad accelerare i gesti e le parole . “Dunque noi oggi dovremmo rileggere tutto, cioè leggo io e lei mi ascolta, poi firmiamo e depositiamo.”

Mi permetto di obiettare ,”Dottore forse possiamo evitare la lettura, conosco bene l’ atto, la sua segretaria me l’ ha già mandato , è perfetto. Direi che possiamo limitarci alla firma”. La mia frase , che voleva essere semplificatoria, lo irrigidisce. Come di fronte ad un opzione imprevista si disorienta un istante . Più scompigliato e meno formale guarda i fogli, poi, alzando gli occhi cerulei, mi risponde “Mah, sì, si potrebbe se lei è sicura , magari qualche riga qua e là, per prassi…” . E tra qualche riga qua e là arriviamo rapidamente alla conclusione. Mi allunga un elegante Montblanc disinfettata , sicuramente di serie limitata, e abbozzando un sorriso, aggiunge ” Ecco, prego firmi qui in fondo, poi firmo io. Non sà che favore mi ha fatto .. “.

Che favore gli avrò mai fatto da scompigliarlo ? Me lo spiega lui abbandonando , inconsciamente, la sua sedimentata compostezza professionale.

“Mi creda oggi è una giornata infernale, sono pieno di appuntamenti , poi con le norme di sicurezza sono tutti infilati alla perfezione ma non ammettono sovrapposizioni involontarie , ho mangiato un panino in cinque minuti e dopo di lei ho una riunione per una cessione di ramo d’ azienda e temo d’ essere già in ritardo”. Vorrei dirgli che non è in ritardo, che è pallido e che, dopo tutta una vita così perfettamente incasellata e maledettamente uguale , avrebbe tutto il diritto di rallentare. Ma ognuno sceglie il suo lockdown, lo capisco perfettamente. Mi alzo ed accenno una saluto per accomiatarmi come da protocollo, ma mi rallenta”no , aspetti la accompagno io , devo spostarmi nella sala riunioni, venga”

Ci salutiamo sulla porta che la segretaria ha gia aperto con un telecomando dal suo bureau di controllo . “La ringrazio per la comprensione, spero di rivederla in circostanze migliori.. ah prenda l’ ascensore subito a destra, così non deve fare le scale.”

Sorrido e rispondo solo “Arrivederci e li lasci aspettare un po’, qualche volta è utile, ogni tempo ha il suo tempo, sopratutto questo “. Chissà se avrà capito o ascoltato.

Riprendo le mie scale in discesa, riguardo bene il crocevia e il corridoio cieco della Scala B e ritorno fuori. La luce comincia a diminuire, a gennaio il giorno fortunatamente fa degli sconti . Torno in modalità’ pilota automatico verso tutte le operazioni meccaniche che il mio scadenzario , volente o nolente , mi impone.

Ero come il Notaio, affannata in un labirinto sempre identico, senza uscita, senza motivazioni o convinzioni, ero come il Notaio che si ferma e si scompiglia di fronte ad una frase fuori copione. Forse tornerò ad essere così dopo questa sospensione. Ne dubito.

Se ogni tempo ha il “suo” tempo , spero che il mio trovi me al quinto piano della Scala B. Poi decideremo insieme con la stessa velocità di crociera, analogica.

Ai “non risorti“

“La corsa dei poveri cristi“-Matera

Buona Pasqua a chi cerca di risorgere “da vivo”.

Buona Pasqua agli ultimi , che rimarranno ultimi perché il nostro tempo non perdona . Chi cade nel percorrere una personale “ via Crucis” o si alza da solo o rimane a terra.

Buona Pasqua a Beniamino Zuncheddu, libero dopo aver trascorso, da innocente, 32 anni in carcere.

Lo Stato si è scusato per l’ errore giudiziario e lo risarcirà con ben 30.187 euro . Ma, per i tempi burocratici , Beniamino dovrà aspettare il “ ristoro” per 2 anni e 125 giorni .

Intanto gli basti la libertà , da povero ovviamente.

Da “povero cristo”che a risorgere non ci pensa proprio e si accontenta di dormire, libero , nel “suo” letto.

Buona Pasqua a Ilaria Salis che giovedì era legata e incatenata in un’ aula del Tribunale di Sofia . Lei, che credeva di vivere in Europa, resterà ospite delle indegne carceri ungheresi dopo essersi vista negare gli arresti domiciliari . Non risorgerà a breve, speriamo sopravviva in attesa di giudizio.

Da “ povera crista”, ovviamente .

E Buona Pasqua ai 5,7 milioni di poveri italiani stimati dai nuovi dati ISTAT pubblicati la settimana scorsa.

5,7 milioni di “ poveri cristi”che non risorgeranno mai da quella soglia di povertà assoluta che preclude l’ accesso a spese e consumi di base . In parole “ povere”trattasi di uomini e donne che non hanno nemmeno la possibilità di acquistare beni alimentari di base . Figuriamoci il resto .

E allora Buona Pasqua a tutti i “poveri cristi” vicini e lontani , tutti accomunati da una certa indifferenza e solitudine .

Ai migliaia di civili palestinesi accampati nei cortili degli ospedali della striscia di Gaza . Ai due ignoti “poveri cristi” morti oggi a causa dei bombardamenti israeliani sull’ Ospedale di Deir al-Balah.

Essendo morti la Domenica di Pasqua ( indipendentemente dal loro credo) risorgeranno?

Forse si sarebbero accontentati di sopravvivere.

Sopravvivere , esattamente come il numero non identificato di prigionieri israeliani di cui non si sa più nulla da cinque mesi, prigionieri di Hamas e di un tempo storico che involve e ci riduce tutti a potenziali “poveri cristi”, nell’ indifferenza generale .

E allora auguri ai sopracitati, ai non citati, a chi arranca e a chi sta leggendo, condividendo o meno, in libertà.

Auguri a tutti noi che impareremo a sopravvivere nel migliore dei modi e temo, nel peggiore dei mondi .

Cristina Battioni